martedì 31 agosto 2021

Un piccolo esperimento.

 

 

La Rivoluzione

di

Bolivian Dundee

Diluviando bene indeboliva Dune.

So cosa bisogna fare. Ma non so come farlo. Potrei allora immaginarlo. Così è più semplice e tutto va come dovrebbe essere, perché sono io che decido. Lì dentro è più bello. Non ho nessun problema. E con il fuori come la metto? Non avendo fretta…”.

Il mondo è un assieme. Probabilmente un assioma. Infatti è rivelazione, dogma, segreto o teoria ufficialmente riconosciuta. Il mondo è uno? Come lo puoi sapere se non ricordi. Allora che fai? Soffri di errore di parallasse. Guardi in un modo, da una direzione, un angolo e proietti tutto col risultato che ogni volta lasci perdere. Sì. Non te ne fai mai niente. Ma ciò che lasci corrisponde a ciò che è e rimane. Come Dune, che continuava a ricevere pioggia e a gonfiarsi, assumendo valenze trascendentali se osservavi tutto da… un po’ troppo sbronzo. Una vera e propria situazione, se non la posizione capace di voltare pagina così come di gettare via tutto senza un preciso perché.

“Ehi, Dundee…”. Si vociferava. La città era come viva. Nonostante la si potesse dipingere in ogni modo, era viva. Il che significava. Come se profumasse. Ovvero ricordando. 

 

 

E di memoria si poteva anche morire, tanto tutto questo assumeva toni da contorno. Insomma, non si capiva proprio perché doveva sempre andare tutto così. In questo modo prevedibile, eppure capace regolarmente di sfuggire in ogni occasione. Ti sembrava di avere capito tutto e, subito dopo, rimanere col classico cerino acceso. Come in una notte celebrativa. E risvegliandosi dal sonno, gettandolo via facendo finta di niente. Intanto… chi ti stava vedendo. Nessuno si interessa di questo. Nemmeno tu, che infatti dimentichi senza mai ritornare sui tuoi passi. Aprendo il fianco a ciò che deve essere il nemico. Se la frase è fatta, allora il nemico deve esserci. Altrimenti che frase fatta è. Gira che ti rigira, si finisce sempre lì. A concepire la compresenza che regola tutto come fosse provvidenza. La fortuna di Gastone e la iella di Paperino, contemporaneamente. Come un sol corpo in costante azione a copertura del territorio. Ineffabile. Insospettabile. Di certo, non come un invasore d’altri tempi, che desta troppo nell’occhio. Con la strategia che lascia tracce, se te ne rendi conto. Così Dundee stava rimuginando. Tra parvenze di orchi ed echi prossimi all’orgasmo. Senza capire. Solo avendo come l’impressione di ricordare.

Ricordare cosa? Era un dedalo sotto forma di caleidoscopi. Molto probabilmente sede dell’ispirazione del labirinto, del nastro di Mobius, dell’essere con le spalle al muro. Come ronzii. Come finta sordità. All’unisono. Contemporaneamente. In un modo talmente autentico da miscelare speranza a speranza, ottenendo ancora speranza. Quindi, una costante. Qualcosa che ti permette di ricordare, anche se non sai dannatamente cosa o chi. Forse si tratta di un luogo? Sì. Comune. L’essere contenuti, come per la notizia l’informazione, il dato, il network. Tutto. Anche la città che annega. A Dune piove sempre? Dove si trova esattamente, Dune? Un momento: non esattamente ma sostanzialmente. Dune è qualsiasi città o società, nella stessa condizione o situazione. Quantunque appaia tale la città è sempre diversa, anche se il nome è solo una citazione. L’essere città è un corpo con dentro un’anima, che ha radici e si è radicata. Una funzione lo consente e ciò che si forma non se ne preoccupa affatto. Dall’alto regna sovrana la prospettiva, fatta di gocce e di profondità. Le cui caratteristiche possono essere illusorie, se si crede di osservare un’opera d’arte. Sbracciandosi, indicando chissà quali cose, Dundee sembrava come una vecchia locomotiva a vapore. In preda al ragionamento, sragionava per chiunque lo incontrasse o vedesse per strada. Era l’alba ed il tramonto messi insieme. Era ciò che si definirebbe troppo. Certamente di troppo. Non a caso non sapeva cosa fare. Per questo sapeva solamente questo, non ricordando nulla come ogni altro individuo, a parte tutto ciò che ognuno era convinto di sapere. Vedeva mosche che sbattono ripetutamente sul vetro, insetti che ruotano attorno alla luce artificiale, manifesti logori e slavati che iniziavano a ricordare opere impressioniste o astratte. Denaro che passava da tasca a tasca, finendo da una parte e costituendo un servizio dall’altra. Ciò che ora ritornava cenere, dopo essere durato quel tanto sufficiente per non destare malumore. Il tempo passava senza per questo esserne fieri. Anzi. Il ritornello recitava dell’invecchiare, anche se non sembra. Eppure, dopo qualche anno il pelo grigio si aggiunge, proprio come il succedersi. Come se una versione di sé venisse cambiata da ipotetici e complottistici scenari. Il rumore era totale. I brividi ne accompagnavano il passo, così come sorpassi chi va più lentamente. Velocità diverse male interpretate. Sensazioni inappuntabili. Sogni proibiti o, chissà, solo vietati. Il mondo era rispecchiato da cotanta ossatura? Il mondo era rispecchiato da cotanta ossatura. A domanda, risposta. A risposta l’ennesimo quesito o enigma. Con gli anelli sempre aperti o mancanti. A dubitare nonostante ogni piena. Dundee allungava il passo, per evitare pozzanghere. Per poi entrarci in pieno, ma solo perché lo desiderava. Gli stivali erano scarpe, prima. Mentre dopo sembravano altro. Ad esempio, pinne o remi o un’intera barca se non… sogni infranti o vagamente abbozzati. Chi può dirlo. La via era lunga e larga. Insomma era grossa. Capiente. Isolante. Attraversava tutto come una lama o una netta decisione. Chi l’aveva progettata non era chi l’aveva costruita. Tale effetto era valido per tutti? Ancora una volta non lo sapeva, credendosi unico. Era certo che procurasse emozioni, però. Troppo verde comportava lasciarsi andare, anche se sulla strada circolavano mezzi elettrici ormai senza rumore, ad eccezione del ronzio come di cicala. La versione attuale di Dune seguiva quelle passate. E nelle goccioline d’acqua c’era il riverbero di più direzioni di spinta. Come se ci fossero più nature o facce della stessa medaglia. L’odore che si sollevava o liberava da terra, era liberatorio. Come l’aria fresca e rinvigorente se non pungente. Anche se di tanto in tanto giungevano testimonianze diluite di vita transante, transitoria, transumante. Le parole come i pensieri non serbavano rancore ne addizionavano stati. Era giorno ma anche notte, in funzione della copertura aerea. Nella stagione a ridosso dell’inverno. Era come per Ouspensky in Frammenti di un insegnamento sconosciuto, lungo la via principale. Quando era impossibile rimanere presenti in se stessi, dando per scontato che quel chiacchiericcio non fosse ancora il sé. “Bah”. A volte la semplicità è disarmante. Altre volte lo è la complessità. Mentre è tale sempre lo stesso risultato che si ripropone, credendo che sia vero. Sino a quale punto Dundee non aveva perso conoscenza? Oppure era sempre stato perfettamente se stesso. Si aprivano in continuazione “se”. Blocchi logici di scelta e direzionamento, in luogo di decisioni vere e proprie. Dunque, stava percorrendo un programma o solo una strada? Quella via era in catrame, con altre parti in vecchio e logoro pavé. Molto scivoloso e lucido, come apparecchio fotografico ante litteram. O come una pozzanghera. Era dunque stata costruita, lasciando altrove l’origine ovvero la progettazione. Così come uno schema a blocchi che definisce ogni tappa del programma, da cui le varie scelte. Allora si trattava di una intenzione a monte che come un’ombra decideva ogni tappa, a cui era demandata unicamente la facoltà della scelta. Il rilievo, del resto conduce. Laddove anche la corrente elettrica conferma. Folate di vento dipingevano come l’alacre artista. Era un sì oppure un no? L’ambiente confermava, o meno. “Fai attenzione Dundee. Si tratta di decidere”. Scegliere infatti veniva sempre dopo. Motivo per cui era qualcosa di imbarazzante. Così come giocando a scacchi lo è capire sempre in ritardo di avere già perduto la partita. Se non ogni partita. Qualcosa che “toglie tutto, anche la speranza, come quando sei convinto di essere un perdente se non un fallito”. Venire sistematicamente dopo, lasciava senza fiato. Ogni volta. E non bastava inveire. Ogni volta. Va bene scaricare la valvola di sfogo. Va bene tutto. Ma a tutto c’è un limite. Come il famoso scherzo che dura poco. Perché stava camminando lungo la pioggia o attraverso la cortina acquea? Ricordava di essere partito da casa per fare qualcosa, anche se lungo il tragitto era stato portato via da mille rivoli o risvolti. “Allora mi sono perso”. Può darsi. Come se il vortice dei pensieri fosse qualcun altro. E se invece è tutto perfetto così? Ci può stare che un individuo possa essere sovralimentato, nascondendo persino a se stesso la propria più autentica o originale natura. “Sì”. Era un’affermazione o se lo stava chiedendo oppure lo stava domandando a chiunque fosse in ascolto? Tutto insieme. Contemporaneamente. Il punto è: perché solo un aspetto dovrebbe essere vero. Se sfugge la questione, allora deve esserci sempre un problema? L’informazione questa sconosciuta. Il susseguirsi dei pensieri segue una logica, anche quando meno lo sembra. Anche quando è nonsense. È la verità del resto. Un intero universo che si fonda sul vero, anche se distribuisce dualità. C’è per forza qualcosa che sfugge. Il segreto è come il pane per la società. Proseguiva tirando dritto. Fermandosi di tanto in tanto, al pari del flusso logico. Che cosa seguisse cosa, era curioso persino da domandarsi. A prescindere, il senso era non lineare. Non ufficiale. Non ovvio. Eppure, era sempre lì. Solido. Come una porta socchiusa e dunque aperta. Non a caso, è aperto il cancelletto non appena s’aziona lo scatto. Seppure apparentemente ancora chiuso, è predisposto ad essere violato. Cosa che confonde se non si guarda attentamente. Se non ci si accorge. Se si è distratti. Se non si coglie l’occasione. Se non è previsto? Esiste il destino, in una programmazione? Allora, il programma è tutto oppure parte da un certo punto in poi? In questo v’è differenza. E le possibilità che insistono aprono vie di accesso, comunque sia. È vero che puoi imboccare vicoli ciechi, ma è tutta esperienza. I sogni sono abitudini. Sognano abitudini. E si sognano abitudini. Come la Befana vien di notte… Il ciclo è un marchio. Mentre sembra ciò che si presta ad essere. C’è sovrastruttura quindi. Condensazione del significato. Verità occultata in maniere che nemmeno esistono. Eppure avvengono ugualmente. Come una telecamera che non ti toglie mai dall’inquadratura. Allora sei tu il protagonista principale. Così promette la cosa. Un momento; ricordi le promesse da marinaio. Si? Com’è possibile se l’universo si fonda sul vero. Allora si tratta di libera interpretazione, dove è possibile tutto conseguentemente. Infatti, nella vita vuoi provare tutto. Anche se sono tappe obbligate e così fan tutti. Di quale libertà si tratta se non dell’emulazione, ch’è libera tanto quanto un cumulo di macerie. Ma chi è che parla? “Dundee?”. Ti chiamano. Li senti? Sei tu. Sei sempre tu. E siamo sempre nella tua testa. Tu che credi che sia l’inconscio che comunque è sempre dentro di te. La radio contiene musica? No. Allora? Manca la connessione. Manchi tu. Eppure ci sei. Devi essere dunque come un processo quantistico, in cui tutto è probabile, nulla certo, tutto im-possibile. Quando qualcosa comincia a cambiare, cambia di stato, di fase come di segno. In maniera impercettibile se non altruistica. Con il sospetto che sia una modifica di breve respiro. Con il senno di poi. Nell’insieme che rispecchia come atmosfera. Dove ci si può perdere, disperdere e ritrovarsi. Allora il mutamento è marea, mare ondoso, forza grande, livella, surf. È nel potenziale tutto questo. Di più, tutto questo è potenziale. Sempre. I grandi alberi ruotano le cime, sfrigolano attorno ai livelli, scendono di quota come volatili, visitano quote più basse e chissà forse comunicano a loro modo. Il vento muove palline di spazio che procurano onde di schiacciamento, tipo il vento. Ciò che si prende ad evidente misura, allontana il senso interiore di esserci, tanto è distanziante la visione che sembra d’altri tempi. Ovunque regna questa forza che è spiegabile dal meteo, anche senza avvicinarsi nemmeno al perché. E ogni conseguenza è sempre davanti agli occhi, così come ogni segreto. Torrenti per le vie. Scampoli di cascate. Fluida interconnessione. Liquidità come per una banca centrale. Virtuale quanto basta per inscenare la scena. La trama. Il copione. L’artefatto. Il fac-simile. La dima. Il campione. Ed alla via così, chi più ne ha meno ne rischi. Chi muove sempre prima? Chi ha iniziato la partita. Di cosa si parla è materia indissolubile. È come un processo alle intenzioni, laddove la previsione è più che scienza. Si sprecano i dibattiti. Tanto servono per riempire lo spazio. Mentre tutto funziona. Mentre sei sempre al cospetto del Re. Elementare Watson…

Non si ricorda più nulla. Seppure tutto continua a funzionare. Col risultato che di conseguenza non è necessario ricordare. Perlomeno si può fare a meno di quel ricordo che fu. Mentre di tutto quel che serve è opportuno rammentare ed esercitarsi da lì. È ovvio che senza l’auto orientamento sostanziale, qualsiasi ambito rimane solo un discorso fatto di parole incomprensibili, che in ogni caso non impediscono nulla di tale continuum. Era ormai quasi buio. La pioggia, consistente, era ovunque. Come l’umidità relativa. E la brezza che transitava a folate. Così la leggera foschia frammista allo scemare della luce. Sussurri lontani ma mai distanti alimentavano fantasie recondite. Era ora di cambiare musica. Anche se forse era fame. Oppure, voglia di fare altro. Camminare stancava dopo un po’. Soprattutto quando si era in mare aperto. Allo scoccare dell’ora. Di fronte alla costa. Lungo la dorsale del faro. Insieme ad effetti lunari e immaginazione. Ulisse resisteva ancora alle sirene. Al loro laccio e abbraccio. Era sempre Dundee, dopotutto. La conseguenza di tutto ciò, nonché il disegno insormontabile di un abile intessitore senza tempo. Automatico. Senza ombre. Continuo. E, allora, persino naturale. Come ciò che c’è sempre nonostante la storia. Qualcosa che si ritrova sempre e che necessita, al limite, solo di lavori di manutenzione o ristrutturazione. Riparando l’irreparabile. Aveva percorso, quanto? Forse trecento metri, che avevano richiesto una vita. Si stava godendo il viaggio? Non era chiaro. I brividi, di tanto in tanto, affermavano di sì. Ma a volte era solo freddo. Altre volte era persino paura, quasi indistinta, poiché riusciva ad afferrarne il senso, ogni tanto. Anche se nel complesso la paura era logica. Guai a non averne, col significato che avrebbe avuto. Era vivo. Sì. Era morto? No. Il gatto era vivo. Lo aveva deciso finalmente…

 

Davide Nebuloni
SacroProfanoSacro (SPS_IO) 2021
Bollettino numero 10-487
prospettivavita@gmail.com

Riproduzione libera”.