In memoria di Romana Pucci.
Le mie considerazioni.
Questa pagina sarà “in costruzione”
sino a quando verrà considerata tale, nell'attesa che giungano tutte
quelle informazioni ora mancanti o carenti. Per cui, chi fosse
interessato a collaborare, può inviare quanto trovato o ricordato alla
consueta e-mail prospettivavita@gmail.com
Qualsiasi tipo di informazione su vita, opere, aneddoti, ricordi personali, riflessi, etc. è bene accetta.
Chi fosse abilitato ad entrare negli archivi storici dei quotidiani
nazionali o locali (per quanto riguarda le varie città abitate dalla
scrittice, nel corso della propria vita), può effettuare una ricerca e
poi condividerne l'esito. Ad esempio, nell'archivio del Corriere della
Sera, la ricerca di Romana Pucci fornisce esito positivo, ma occorre
essere abbonati per leggere le informazioni. Chi eventualmente l'avesse
conosciuta anche se più o meno direttamente, potrebbe fare opera
gradita, oltre che una “buona azione”, condividendone il ricordo, poichè
l'intenzione è quella di rendere un quadro della situazione a tuttotondo
(e, non, quattro righe da riportare asetticamente).
Solo dopo aver raccolto informazioni a sufficienza, provvederò a creare la pagina Romana Pucci in Wikipedia.
Le informazioni raccolte sino ad ora compongono questo scritto, per cui,
essendo personalmente al corrente di poco, mi sono aiutato col riportare
ciò che è presente in Rete, oltre che ad aggiungere quelle memorie
personalmente riscontrate nelle mie ricerche. Quindi, per tutto quello
che concerne il materiale Web riportato (per cui ringrazio), è sempre
presente anche la relativa referenza (nominativo, sito, data, etc.). Chi non fosse d'accordo, può sempre richiedere a prospettivavita@gmail.com l'eliminazione del proprio materiale. In ogni caso, le varie fonti saranno contattate per disporre del relativo nullaosta.
Si fa puntualmente notare che in questo Spazio (Potenziale) Solido, l'iniziativa Romana Pucci è senza alcun scopo di lucro.
Perchè proprio Romana Pucci?
La
convinzione personale che sia in credito con il “destino”, mi ha
portato a considerare che almeno in Wikipedia debba essere ben
rappresentata. Se, infatti, si esegue una qualsiasi ricerca in Rete, di
questa autrice e poetessa italiana non si trova quasi niente. Non solo;
sembra che tutto ciò che la riguarda sia avvolto da nebbie
particolarmente insistenti. Ad esempio, persino per quanto riguarda il suo primo editore (Gastaldi
di Milano), non sembra esserci nessuna traccia liberamente disponibile
in Internet. Eppure, fu una Casa editrice che lavorò per svariati
decenni, tra il 1918 ed almeno il 1960 (Link) e che pubblicò oltre quattromila opere originali di scrittori italiani.
Non avendo a disposizione dei testi specialistici di “storia dell'editoria italiana”, per ora non posso far altro che constatare che un simile “buco" sia perlomeno inquietante. Il pensiero va al periodo in cui fiorì Gastaldi, ovvero, comprendendo il periodo fascista e poi il “dopoguerra”, che potrebbe aver sancito sia la fine dell'editore, sia il silenzio che tuttora aleggia.
Poi, Romana Pucci nel 1982 partecipò al premio “L'inedito”, di Milano, del quale - manco a parlarne - non si trova nessuna informazione. Così come per la relativa opera prima “Tempo curvo”. Così come per quanto riguarda il lavoro teatrale “L'estro del vino”, del 1973. Così come un po' tutto quello che la riguarda... L'idea - di più, un “sentire” - è che l'atmosfera particolarmente tagliente che sembra averla accompagnata e condotta verso la “fine”, sia relativa ad una certa etichettatura, per via di ciò che descrisse ne' L'uva barbarossa, a proposito della figura contrastata ma decisiva del padre “fascista”. Era il 1983 e dal 1980 Romana Pucci aveva conosciuto un buon successo grazie al romanzo “La volanda”, che le permise di emergere dall'oblio in cui si deposita la gran parte dei manoscritti inviati alle Case editrici. E lo fece con grande stile, attirando l'attezione di Natalia Ginzburg che, presso Einaudi, era responsbile per il progetto di recupero e valorizzazione del merito, scavando e scovando tra i manoscritti già presenti ma sepolti in “casa” (la volanda, prima di salire alle cronache, decantò per otto anni presso Einaudi). Nel 1983, con il romanzo L'uva barbarossa qualcosa si ruppe e molte “porte si chiusero” indirettamente. Romana Pucci cambiò editore ed il periodo difficile invase anche la vita famigliare (divorziò dal marito nel 1984) e molto probabilmente le tarpò le ali definitivamente, essendo Romana Pucci oltremodo sensibile e particolarmente votata all'introspezione come, ad esempio, emerge clamorosamente nella raccolta poetica Uomini sandwich del 1964 (pubblicata con Gastaldi), dove il volo è costante attorno al luogo comune della “morte”, come non per prenderne le distanze, bensì, per saggiarne la consistenza sostanziale (nel mondo, non del mondo). “Cosa” che, alfine, la coglierà a pieno, nel 1990, quando in preda a qualcosa di apparentemente insormontabile, decise di gettarsi in tale profondità, suicidandosi.
Un “destino” molto comune, a quanto pare, nel mondo degli artisti. Troppo “ria” la società. E “troppo” sensibile l'animo che si professa tale, attraverso la propria opera prima, che è e rimane l'esistenza che si manifesta come srotolando troppo velocemente un papiro nel quale è contenuto tutto o troppo poco, chi lo sa. Che cosa rimane? Della sua infanzia, i ricordi riportati nei romanzi. Momenti felici (che probabilmente si realizzano tali, dopo aver “perso” quel treno) come dovrebbe essere perlomeno ogni infanzia, nonostante le vicissitudini. Sì, perchè, quando sei “piccolo” tutto passa in secondo piano. Tutto ad eccezione di quello che attira di più l'attenzione, ovvero, il pensare “solo” a giocare, divertirsi ed essere in armonia con sè. Un atto di egoismo? Ma no. Oppure, come per il colesterolo, dell'egoismo "buono”. Così come “cattivo” è stato ciò che l'ha attesa e caratterizzata nel prosieguo, allorquando passa in secondo piano proprio tutto quello che più “contava” ed esisteva “prima”, lasciando in... balia di fantasmi o ricordi sempre troppo lontani e dunque dolorosi o solo da rimpiangere. Sono i più “deboli” che ci vanno di mezzo? Se questa è debolezza, allora non vorrei mai essere “forte”.
Nell'immergermi in tale universo, ho percepito - seppure attraverso di me - ciò che traspira ancora dalle sue tracce. Romana Pucci giungeva da una dimensione avente radici proprie. Non faceva parte di nulla, rispetto a ciò che la accompagnò da adulta. Lo si evince rispetto al trattamento ricevuto in vita, dalla società giudicante. Quindi, ne pagò ogni conseguenza, quando emerse - per merito - attirando attenzioni ed una dis-attenzione sostanzialmente di... quasi dispetto. Come non “fiutare” che è andata così, anche solo leggendo ritagli di giornale, che ritraggono il “ripensamento” del voto durante il Premio Viareggio del 1980? Dopo che la “critica” aveva giudicato un “piccolo capolavoro”, La volanda. Dopo che aveva ottenuto la preferenza ed il vantaggio e, invece, tutto svanì patendo l'altro aspetto preponderante nella società (non solo dell'epoca), ovvero, un insieme di potentati di genere (maschile). Questa è cronaca e, non, un parere personale. Più avanti infatti vengono riportate le notizie prese da alcuni quotidiani, che testimoniano quanto riportato poco sopra. Insomma, è la solita storia. Ciò che in questo Spazio (Potenziale) Solido prende il nome di... Anti-Sistema.
A
tal proposito: attorno a Romana Pucci aleggia un “mistero”, che spiega
il perchè di un simile oblio. Ma, come si suol dire “tempo al tempo”.
Intanto, non sembra avere destato l'interesse di nessuno la sua morte violenta,
tanto che non si trova traccia nemmeno del suo necrologio sul Corriere
della Sera (che a più riprese l'aveva citata, mentre era ancora in vita). Interessante
dovrebbe essere consultare gli archivi storici dei giornali di zona, di Milano.
Dunque, ecco lo stato dell'arte ad ora, in attesa delle varie ed eventuali, di cui ringrazio anticipatamente. C'è un vuoto da riempire...
Davide Nebuloni 26 marzo 2021
Segue il materiale trovato in Rete.
Da “Uomini sandwich”
Di Romana Pucci Bruni
Morte di fine estate
Ora che il grano è alto
il sole Io va a tagliare,
Sta, con gli occhi seccati
sui coltelli d'agosto
l'ape del mezzogiorno.
La polvere trasogna sulle siepi,
silenziosi fiammeggiano
barbagli
d'ogni chiaro, nell'ora che lo muta.
Nel grembo della notte
s'è consumata
la luna crocefissa dai pagliai:
arrovella sui vetri
la falena
spigolatrice dei prati infanzia.
Rotta la melograna dei mattini,
di quel che fu
rimane
un vuoto casellario.
Come un grido assolato,
meridiano
presto accade la morte.
Calvario
Io fui nella Tua sete
Signore,
come fumo
di scorze acerbe
e nel Tuo corpo
Altare senza vino.
Ti apersi l'acqua dell'agonia
con mani di dolore
(in chiarità
sul vertice trafitto,
si fusero
i Tre Volti
del dubbio mortale)
e attesi,
disseminata
in cicli randagi di sangue,
l'ora assolata
che abbaglia
il cardo della speranza.
Oggi mi appari
Signore,
come, da un vetro abbuiato
la scia di un lume.
…Colmarono gli orci
di fiele,
e ne bevemmo per vivere;
calcolarono le distanze
sul filo di una pertica,
e non ebbero pace
che quando
l'acqua della morte
ci ebbe mondati.
Forse rimasi
Signore,
nell'occhio del ladrone,
e fui l'erba stentata
tratta al sole
dalla sua vera morte.
Altre stagioni cadono.
Macina uva e grano
una mola di tempo
per l'Ombra crocifissa
che ha la mano
della mia mano.
La casa
Non sarebbe valsa la pena
di vivere,
se, davanti alla porta di casa
non ci fosse seduta la speranza,
disseccata,
quasi simile a un mendicante,
cui dovevo provvedere
cibo e alloggio ogni giorno,
e, dentro,
tutte le piccole abitudini
non avessero ricalcato un ricordo,
come fili di una trama
costretta
a un angusto telaio.
Quando la collana del tempo
sarà stata infilata,
e la morte,
con un piccolo scatto,
ne avrà suggellato il fermaglio,
forse allora saprò
che la perla più grande
fu portata per ultima,
quando ormai il filo era breve,
e gli occhi troppo assuefatti alla lontananza
per scorgere ciò che era vicino.
Eppure,
come avrei osato,
se c'era ancora un istante da vivere,
fare un baratto
fra realtà e sogno?
Cavalco
per una grande pianura,
e compiango
chi si è fatto guardiano
d'un piccolo campo,
come si porta al dito
legata,
la sua perla.
Il moscerino
Un giorno potrebbe accadere
che dicessimo la verità,
voltando gli occhi a guardare
le evoluzioni di qualcosa
accanto a noi,
abbastanza nobile
per richiamare Io sguardo,
abbastanza minuscolo
per permetterci di pensare:
un grazioso
indaffarato moscerino.
Pronunceremo parole definitive,
col tono di chi parla del tempo,
aspirando dalla sigaretta
piccoli sorsi di fumo.
È quando fossimo sazi
dello spasimo inferto a vicenda,
vuoti,
come certi tronchi
devastati dal termitaio,
sono certa,
entrerebbe una grossa domestica
nel cerchio della lampada,
e direbbe con dignità:
“Signori, il pranzo è servito”.
Allora sapremo,
in quel preciso istante
la misura inviolabile
del nostro umano guinzaglio,
e come tutto si ripropone
nel casellario dei limiti,
simile a un gioco di scacchi
esatto, e probabile,
e vano…
Ci stringeremo addosso
l'abito di corteccia,
e siederemo alla tavola,
uno di fronte all'altro,
come il re e la regina
su un trono bicolore,
aspettando la mossa a venire
del Giocatore astratto
che ci oppose,
strumenti
di una cattiva battaglia.
Gli uomini sandwich
Circe lunare
tratti schiavi gli Ulissidi
decise il mutamento
dell'attimo libero
in stagione
finita.
Figli di Re
generati per la morte,
ci imposero di scrivere testamento
fin dal primo vagito;
di accumulare fortune per i posteri,
a prezzo della nostra miseria.
Per quello che ci riguarda,
ereditammo
beni pignorati:
un senno logoro,
vizi
qualche ventata di coriandoli,
una giostra inchiodata
al cerchio esiguo
d'una molla,
che scatta tra due eclissi,
(il tempo reclama tributi
ad ogni nuova partenza)
e malattie di famiglia.
Pochi talenti in tutto,
di cui avremmo dovuto
rendere conto più tardi,
come è detto nella parabola.
Sarebbe stato facile
fingerci assenti
dietro la mano del fratello,
levata a coprire
l'amara abdicazione,
e dissipare la vita,
finché il sole tuonava
sui sulfurei cavalli prigionieri.
Ma il legato dei morti
è scritto sotto la pelle:
non possiamo disfarcene,
né renderlo, di notte,
ai sepolcri
del giardino dei Re.
Così,
lottammo dall'infanzia
diroccando colline di cenere
per costruire un impero.
Seminammo filari
di miti e di utopie;
edificammo palazzi
fin nella gola dei vulcani,
e cinte di mura intorno ai fuochi,
e garitte sugli spalti,
dove sedesse
a vegliare,
la speranza,
dai dolci occhi appassiti.
Dichiarammo battaglia
alle locuste
divoratrici del raccolto,
al popolo dei bruchi,
sudditi del luogo comune,
alla chiaroveggenza
asseragliata nei granai,
alle fedi definitive,
ai lineamenti precisi
dello stimolo e della resa.
Abbiamo piantato le tende
nella fertile pianura
del dubbio.
Chi mai,
chi mai ci affrancherà
dal legato dei morti?
e chi ci avvertirà,
all'agguato dei sogni
delle parole che non avremmo dovuto
trascrivere
nel sangue dei figli?
Poiché fummo costretti
a generare
una coorte di Re,
destinata a sorreggere
i troni di cartapesta,
dove un molteplice nulla
si pavoneggia,
coronato d'Eternità.
Già ci contano i giorni
gli eredi del futuro,
allineati ai confini
del regno di tutti i limiti.
Si avventurano al gioco
su barche di corteccia
dove un canuto Giasone
travestito da fanciullo,
arroventa gli scalmi,
brancolando
per un immobile mare.
La nostra vana sapienza
di ciò che non è,
che non serve,
che darà frutti;
l'impero dell'atto e della grammatica,
Io scettro della disperazione
con cui segnammo i destini
di nuove terre;
tutto ciò non è che una ruga
di vento
sulla sabbia,
che il vento
ripete
e trasforma,
secondo una strana vicenda.
E noi sapevamo la fine
dal principio,
e fu forza dimenticare,
e ricomporre i frammenti
dispersi dalla Sfinge.
Siamo paghi
di non dover durare più a lungo.
Noi,
schiavi del nostro retaggio,
pallidi uomini sandwich,
schiacciati tra i due emblemi
passato futuro,
vorremo soltanto,
prima che finisca il turno,
deporre il nostro lignaggio
sulla soglia
del giardino dei Re,
e voltarci a guardare
le stelle… le stelle… le stelle… (1)
Romana Pucci (per Wikipedia)
Romana Pucci in una videointervista su Rai2, nel 1980. |
Il futuro link in Wikipedia:
https://it.wikipedia.org/wiki/Romana_Pucci
“Su ‘Notte e strada’ scrissi una breve nota nell'‘Adige’ del 7 maggio '55, fin d'allora sottolineando la personalità complessa dell'autrice, la ricchezza della vita interiore, la prensilità fantastica, il rigore intellettuale, la centralità del problema della morte… (1)”.
Nunzio Carmeni
Romana Pucci (Borgo Buggiano, 21 maggio 1928 – Milano, 10 novembre 1990) è stata una talentuosa scrittrice, poetessa, autrice teatrale italiana.
Indice
1. Biografia
2. Cronologia
3. L’attività poetica
4. L’attività teatrale
5. I romanzi
6. La Volanda
7. Tempo curvo
8. L’uva barbarossa
9. Note
10. La morte
11. Testimonianze
12. Eventi esterni
13. Bibliografia
14. Immagini e varie
Biografia
Romana Argia Maria nasce a Borgo a Buggiano (Pistoia) il 21 maggio 1928; è il paese della mamma Ada e dove vivono i nonni materni. Il padre Amulio Pucci è orfano, proveniente dalla zona di Navacchio (Pisa); era stato assunto come tecnico d’officina in ferrovia, ma poi preferì fare per 40 anni il fuochista sulle locomotive a vapore (“Dritto davanti alla fornace, impalava trenta, anche quaranta quintali di carbone ogni turno...”) e più tardi il macchinista. La famiglia vive a Livorno finché la bambina ha tre anni, poi si trasferisce a Verona dove Romana inizia gli studi presso le Orsoline, come esterna. In estate di solito con la mamma e il fratellino Vinicio si reca in Toscana dai nonni: inizialmente nell’edificio scolastico nel centro del paese dove il nonno Sebastiano Pieri aveva insegnato tanti anni, poi – dopo il pensionamento – nella campagna circostante, luogo di passeggiate e scoperte. La famiglia Pucci dal 1940 vive a Bolzano dove la figlia prosegue gli studi (prima alle magistrali, poi al liceo classico) e conosce il prof. Anselmo Bruni, docente di Storia e filosofia al liceo “Carducci”. Mentre il fratello – divenuto anche lui ferroviere – rimane a vivere e lavorare a Bolzano, dopo la maturità Romana si sposa e si trasferisce con il marito a Milano; nascono due figli, ma nel 1984 il matrimonio con il prof. Bruni finisce.
La scrittrice muore a Milano il 10 novembre 1990. (2)
Laura Candiani
Cronologia
Nasce a Borgo a Buggiano (Pistoia) il 21 maggio 1928
Vive a Livorno sino al 1931
Vive a Verona sino al 1940
Vive a Bolzano sino al ? (1948)
Vive a Milano sino alla morte, il 10 novembre 1990
L’attività poetica
Ancora studente scrive Il fuoco primordiale che le vale un ambito riconoscimento al concorso “Sentiero dell’Arte” a Merano, dove il poemetto in endecasillabi viene definito una “rivelazione”, una “grande scoperta”.
A Milano comincia la sua attività letteraria con la raccolta poetica Notte e strada (Gastaldi, 1955), seguita dieci anni dopo da Uomini sandwich (Gastaldi, 1965). (2)
Una precoce e acuta lettura critica è quella di Nunzio Carmeni... (6)
Note per Romana Pucci Bruni (di Nunzio Carmeni)
Da Notte e strada *) del '55 agli inediti Uomini sandwich del '64, a cui appartengono i versi che pubblichiamo, la poesia di Romana Bruni s'è venuta travagliando, con esito diverso e di non facile accertabilità, intorno ad alcuni nuclei lirico-meditativi, caratteristicamente antinomici sin dalla radice: la morte e l'amore; l'essere e l'inconsistere; l'io l'altro e Dio.
Su questa problematicità radicale incide la prospettiva d'un sentimento dello spazio-tempo come provvisorietà, istante-limite e istante-eternità, sotto Io stimolo d'una sempre crescente lievitazione metafisica, ora elusa in volontaristico aggrappo agli oggetti, ora direttamente affrontata e sofferta.
La tensione agli oggetti, la cui folla assiepa il suo linguaggio, da una parte è momentanea pacificazione, nella misura del concreto, d'una ricerca d'equilibrio esistenziale; dall'altra, provoca, e quasi immediatamente, il rifiuto della loro invadenza, scatena la reazione d'un'intimità offesa più che delusa e genera un processo di trasvalutazione analogico-simbolica, che, quando non fa scadere gli oggetti a meri indici impressionistici o anche emozionali, li proietta in una dimensione metafisica, costringendoli a rispondere a nuovi e più assillanti interrogativi proposti dalla persona, in cui s'incrociano e si arrovellano.
Punto immobile, al centro, col cumulo dei suoi incubi e la tagliente logica dei suoi giudizi, la persona trapassa per complessi moti interni, dal nodo della disperazione-angoscia-paura:
L'involucro del tempo
è un suono momentaneo
trafigge gli ignudi
con seriche ciglia di paura
come il morso della tarantola
che danza nel sangue
il labirinto della morte
(Dove nasce l'autunno)
a quello dell'ironia-sarcasmo-indifferenza:
…fummo costretti
a generare una coorte di Re
destinata a sorreggere
i troni di cartapesta,
dove un molteplice nulla
si pavoneggia
coronato d’eternità
(Gli uomini sandwich)
Non ditemi arrivederci.
Se sopravvivere significa indurire
indossiamo
il mantello dell'indifferenza
(Le maschere)
quando non si coglie nel turgore d'una passionalità non disciolta:
Nella notte i miei frutti
ancora pendono
dal tralcio
che non hai vendemmiato
o non si raggela in certezze pietrificate:
sono entrata
come chi torna da una lunga strada
e si arrende
alla cenere del fuoco.
Cosi doveva andare.
(Consumata in radici)
La fatica di vivere
ci crebbe al fianco
non vista,
come, da seme gittato,
filo d'ombra tenace.
In ogni caso, tuttavia, la dialettica delle antinomie suggerisce capovolgimenti impacifici, come in questo caso:
Inutili sono le parole
che oscillano al pendolo del suono
(Nel silenzio)
e, per contro:
Occorrono parole per vivere e per morire
… … …
Non sarà stato il silenzio
a garantirci dalle definizioni
(Dove nasce l'autunno)
Improrogabile dunque l'urgenza della persona di definirsi e consistere, di rapportarsi e comprendersi per comprendere e accettarsi e accettare il reale giustificato, se mai possa essere giustificato sino in fondo. La persona guarda, dentro e fuori di sé, oltre ogni schermo di comodità, di compromesso, di rassegnazione; stabilisce rapporti di significanza tra i suoi interni moti, tra sé e gli oggetti, e tra gli oggetti e gli oggetti, in cerca d'un punto-luce, d'un punto-croce, trapassando dall'ordine del concreto a quello dell'assoluto, urta in contraddizioni e si ferisce, rientra in sé a ritrovare la sete di capire, riavvia il discorso, già nel futuro ricollocando il passato: documenta, più che non liberi, una tormentosa e oscura situazione di crisi.
Da ciò, il vasto filone della poesia del notturno e del silenzio, della concentratezza interiore e dello smarrimento senza penombre.
II contrappunto “frana-altezze” **), ad apertura di Notte e strada, risolto lì per lì in una troppo precaria analogia (percorsa, per altro, da una forse inconsapevole memoria letteraria) era destinata via via a divaricare i due termini sino a renderne, in Uomini sandwich, irricuperabile il filo e spezzarlo alla tagliola del dubbio:
Abbiamo piantato le tende
nella fertile pianura del dubbio
(Gli uomini sandwich)
La “frana” si traduce in corrosiva ossessione di morte. Liricamente, è questo il tema più fecondo della poesia di Romana Bruni: s'innuclea nel tema della persona, si dilata in quello del tempo e di Dio, condiziona il linguaggio.
Vengano guardate le cose bloccate al loro tempo fisico o venga riassunta in quadro extratemporale la storia umana, o venga meditata la Croce, sempre vi insiste questa ossessione di morte.
Un paesaggio estivo di sole e grano è morte contemplata nella sua imminenza necessaria:
Come grido assolato
meridiano
presto accade la morte
(Morte di fine estate)
Crollo e dissipazione è un paesaggio autunnale di grigio e freddo:
Crolla un nido deserto
dallo scrimolo.
Ne dissipa i piumacci
la sizza di novembre.
Esistere è meno che ombra, “acqua nell'acqua del tempo”:
il colombo selvatico
che scocca fra gli embrici
una curva provvisoria
grigio su grigio annida
e mi cancella.
… … …
Altro non seppi
che morire
alla febbre dei mattini.
(Giganti della sera)
La storia umana è provvisorietà:
Non siamo che un aspetto parziale
del minuto e dell'eternità
del disordine sferico
preordinato e beffardo.
(Un movimento fermato)
La morte è l'unica certezza, l'unica direzione possibile. II paradigma esistenziale delle conseguenze è scandito con logica rigorosa, ma costantemente attraversato dalla contraddizione del dolore e della speranza.
Si: la vita eterna è una favola:
…E, poi dissero,
tutto ha fine
esistere
o non essere mai nati.
Tutto era scritto
chissà dove
che eravamo provviste per il tempo
un semplice turgore
nel ventre
del serpe arrotolato.
E,
dissero,
la Vita Eterna.
(Conchiglie)
Passato e futuro sono emblemi che ci schiacciano; libertà, responsabilità, comunicabilità e comunione sono vuote illusioni; in fondo, nemmeno significa nulla la loro singolarità della persona:
e non conta chi cammina
ma il sentiero tracciato,
non la nave, ma la rotta insicura
passata da mano a mano,
perché non l'uomo fu eletto
né il volere di uno
ma la moltitudine
nutrice di volontà non voluta.
(Ante Christum natum)
Vivere è una diaspora di semi, con al centro il tempo (“il serpe arrotolato”), alla corona lo spazio; un camminare “su vecchie orme sospesi in una pausa”.
Ma, l'angoscia resta; e resta l'incubo e l'urgenza della speranza, del sogno e del prodigio (cfr. “La casa” il più bello di tutti i componimenti di Uomini sandwich).
Si: siamo provviste per il tempo, “generati per la morte”, schiavi di turni non voluti e inutili, ma non per questo noi non vogliamo:
prima che finisca il turno,
deporre il nostro lignaggio
sulla soglia del giardino dei Re
e voltarci a guardare le stelle… le stelle... le stelle…
È il tema delle “altezze”, di là d'ogni ideologia filosofica e teologica: l'ansia metafisica, la profonda, implacabile tentazione religiosa.
I modi del linguaggio aderiscono ai modi del sentire e del pensare. Poiché guardare (più che contemplare) e riflettere (più che meditare) s'innervano ad un unico groppo e non sono atti separati o separabili, e sono, nella situazione di crisi, insorgenti ed esigenti, l'immagine tende a contrarsi in termini essenziali, sintesi di concretezza ed emblema, e il discorso, che la sottende, ad aggrumarsi in soluzioni epigrafiche, senza tuttavia un approdo illuminante.
Sul piano espressivo, la macerazione della ricerca carica di tensione la parola verso un significato assoluto.
Il processo si sviluppa per accostamenti e urti, talvolta violenti, di analogie e di contrasti.
La sfumatura è esclusa; escluso il semitono.
Linee figurative e timbri ritmici sono scanditi con secca energia, a tagli netti e asciutti.
La relazione analogica, talvolta faticosa, più spesso rapida e balenante, pone e distrugge simboli ed emblemi, suscita prospettive e le corrode, impegnando fantasia ed intelletto ad uno sforzo continuo di convergenze e divergenze.
Termini tematici si accampano, sino quasi a dar l'impressione d'un linguaggio limitato e a cifre. (1)
*)
La raccolta, dopo la segnalazione d'onore al Concorso nazionale
Gastaldi del '54, fu pubblicata dalla stessa Casa editrice nella
primavera del '55. L'autrice vi si firmava Romana Pucci, col cognome di
ragazza, sebbene già sposa del prof. Anselmo Bruni, indimenticato
docente di Storia e Filosofia al Liceo “Carducci” di Bolzano. Su Notte e
strada scrissi una breve nota nell'“Adige” del 7 maggio '55, fin
d'allora sottolineando la personalità complessa dell'autrice, la
ricchezza della vita interiore, la prensilità fantastica, il rigore
intellettuale, la centralità del problema della morte. Quando Uomini
sandwich vedranno la luce, si potrà misurare il cammino percorso. Per
anticipare un risultato, dirò che, dal punto di vista artistico, la
seconda opera è altra e diversa dalla prima.
**) cfr. “Se mi ascoltassi”:
Se mi ascoltassi
come una valle
i suoi ciottoli,
udrei le altezze
donde sono franata.
L’attività teatrale
Con Adriano Vercelli scrive il testo teatrale L’estro del vino (1973), andato in scena al teatro Mancinelli di Orvieto. (2)
Il Corriere della Sera, del 19 settembre 1973, riporta la notizia.
L’opera
inedita “L’estro del vino” di Romana Pucci e Adriano Vercelli, che
verrà rappresentata a Orvieto in occasione del 7° Congresso nazionale
dell’Associazione italiana sommeliers, sarà illustrata oggi (19
settembre 1973) alle 18 alla Terrazza Martini, piazza Diaz 7. (7)
L’Ais, effettivamente ricorda la celebrazione in Orvieto, nel 1973, all’interno del proprio sito Web, in cui null'altro si aggiunge.
I romanzi
Di grande interesse risultano i due romanzi (La volanda e L’uva barbarossa) mai ripubblicati, perché offrono uno spaccato della sua vita giovanile – personale e familiare – in varie regioni italiane, grazie al forte autobiografismo, ma anche di un’epoca intera che comprende la sua infanzia, gli studi, i difficili momenti della guerra, le vicende vissute da quel babbo tanto amato che la chiamava affettuosamente “Topicchio”.
Come narratrice pubblica il primo romanzo, La volanda (Einaudi, I Nuovi Coralli, 1979), con prefazione di Lalla Romano, grazie al cui interessamento era stato recapitato alla casa editrice ben otto anni prima. A cui segue il secondo, Tempo curvo (1982) che non viene pubblicato ma presentato al premio L’Inedito, a Milano. E l’ultimo romanzo, L’uva barbarossa (Rusconi, 1983). Entrambi i romanzi divulgati sono autobiografici, sull’infanzia in Toscana e a Verona il primo, sull’adolescenza a Bolzano il secondo.
In tutti e due i romanzi l’autrice usa la prima persona e narra gli eventi in ordine cronologico, ma con repentini ritorni al passato o anticipazioni, con frequenti digressioni e “distrazioni”… operando delle trasfigurazioni, come lei stessa dichiara, e utilizzando molti dialoghi. Oltre all’io narrante, bambina e poi adolescente vivace, ribelle, inquieta, emergono la bella figura del nonno, un vecchio intellettuale incompreso e deluso che con la nipote ha un amichevole rapporto di complicità, e il babbo, un grande lavoratore, attaccato alla famiglia, risparmiatore, ma anche ingenuo e vinto da una serie di eventi più grandi di lui. Se la vera protagonista de' La Volanda è lei con le sue curiose amicizie, con i suoi colpi di testa, con le sue stravaganze, il padre è la figura centrale del secondo romanzo in cui lo vediamo progressivamente perdere la gioia di vivere, gli interessi (come la lettura e il giardinaggio), chiudersi in sé stesso, nel triste paesaggio di Bolzano e nel tragico periodo bellico. Un giorno avviene un fatto terribile e inspiegabile: sulla porta di casa viene ferito gravemente a un braccio da un colpo di arma da fuoco, e da allora la sua vita non sarà più la stessa. Non si capisce se c’entri la politica (siamo ai primi di maggio del 1945), ma in seguito sarà premiato come “partigiano” (anche se non lo è mai stato); lettere minatorie e sguardi ostili lo porteranno direttamente dal generale Alexander per restituire una onorificenza che pensa di non meritare. Dopo ulteriori amarezze e delusioni (fra cui l’epurazione), fu nominato cavaliere, ma era un uomo semplice, che andava a piedi o in bicicletta, “preferiva mutarsi in uva barbarossa...”. È con la sua presenza malinconica che si chiude il romanzo, nell’ultima vacanza che padre e figlia (ormai adulta) trascorrono insieme, nella laguna di Marano in Friuli.
Lo stile di Romana Pucci è molto personale, in una alternanza di periodi brevi, frammentari, ellittici, e lunghi, articolati; il lessico poi è concreto, un vero plurilinguismo, anche se prevale il toscano popolare, rielaborato in modo assai originale, ricco di onomatopee, personificazioni, metafore, enumerazioni. (2)
La volanda
“Considero questo romanzo di Romana Pucci La volanda un piccolo capolavoro: piccolo per la mole, s'intende; e poi si dice così per attenuare la pomposa definizione. È un romanzo ‘nuovo’, originalissimo, su un tema più volte cantato, quello dell'infanzia… Protagonista è l'autrice bambina, e la sua infanzia appare insieme trasognata e precisa. L'Autrice racconta come se non si trattasse di lei stessa, con intensità assorta, quasi ridiventasse quella di allora, e il suo occhio illuminasse, di volta in volta, come un cerchio di luce, un particolare complesso come un mondo. Le vicende sono imprevedibili, misteriose; sempre in esse si giocano le fasi estreme della vita: estasi e cadute, solitudine, morte e rinascita. E le presenze: il padre, appena intravveduto, amoroso; la madre estrosa, un po' selvaggia; e su tutti il grande amico: il nonno, affascinante uomo solitario, colto e sdegnoso. Il linguaggio è ricco, qua e là prezioso; ma è impensabile volerlo diverso, ridimensionarlo, impoverirlo. Non manca un risvolto razionale ogni tanto, qualche leggera breve riflessione; ma è come un suono grave, tenue, che sembra nascere dalle stesse immagini. È il tipico romanzo di un poeta (e si vorrebbe parlarne a lungo)”.
Lalla Romano (5)
“Nel libro della Pucci l’infanzia non è per nulla rimpianta ‘come un verde paradiso perduto ma appare come un angolo di stanza angusto, rotto e assediato o come un angolo della terra prossimo a precipitare nel buio…’”.
Natalia Ginzburg (3)
La volanda è un vocabolo toscano che indica la parte più leggera e volatile della farina, ma anche la parte girevole della ruota di una macina o del mulino.
Il romanzo è un racconto di grande intensità su un’infanzia sognante e un po’ selvaggia, ambientato fra Borgo a Buggiano e Verona e con al centro la figura del nonno, uomo colto e sdegnoso. Il linguaggio è immaginifico, prezioso, con metafore, passaggi analogici e contaminazioni lessicali toscane. Lalla Romano lo definì un romanzo poetico. (8)
Tempo curvo
Nel 1982, Romana Pucci partecipa al premio L’Inedito, “assegnato da una giuria femminile a un romanzo manoscritto…” (4), a Milano, con l’opera prima Tempo curvo.
Di questa opera prima non c'è alcuna notizia.
L’uva barbarossa
L’uva Barbarossa indica il "nome di un vitigno le cui qualità variano a seconda delle zone di coltivazione...". (10) L’uva Barbarossa è un vitigno diffuso in Emilia da cui si produce un vino adatto all’invecchiamento.
Collocato al termine di un lungo e meditato percorso di ricerca poetica, il romanzo autobiografico L’uva barbarossa (1983)… rappresenta una delle più originali rielaborazioni letterarie delle vicende della guerra e del dopoguerra altoatesino. La narrativa della scrittrice segue il filo di una ricostruzione biografica ed esistenziale; dai miti dell’infanzia sino alla dura disillusione e alla scoperta della tragedia umana. In questo senso l’intero suo percorso letterario riproduce, in un successivo approfondimento di livelli, una medesima “rivelazione negativa”: lo “smarrimento senza penombre” (Carmeni) espresso nelle giovanili esperienze liriche; lo scacco subito dall’“anima bambina” di fronte al “tradimento” della crescita nel primo romanzo, La volanda; infine, la sconfitta operata dalla “storia” e vissuta nella figura del padre nel... romanzo, L’uva barbarossa. Qui il ricordo delle radici contadine toscane fungono da contraltare allo spaesamento e alla mobilità familiare determinata dai trasferimenti del padre ferroviere. L’“esilio” bolzanino sembra spezzare l’armonia di una fiaba infantile. L’originale linguaggio della Pucci sembra enfatizzare questo stordimento: elisioni, bruschi passaggi analogici, contaminazione tra inserti lessicali di ascendenza letteraria, cadenze toscane e frasi di registro colloquiale, con un uso sistematico del discorso indiretto libero. Tutto ciò conferisce al monologo interiore una forma frammentaria e spigolosa, di particolare intensità…
La figura intorno alla quale s’incentra la narrazione è quella del padre:
anarchico e anticlericale negli anni giovanili, poi fascista, infine
scettico nei confronti dell’istituzionalizzazione del regime. L’onesta
povertà, la concretezza, il buon senso non lo preservano dalla dura
esperienza della sconfitta, che nella memoria della figlia si concentra
dolorosamente nell’episodio del 3 maggio 1945. Nei cruenti scontri a
fuoco che si accendono nel capoluogo, a guerra ormai finita, qualcuno (i
tedeschi? qualche ragazzo che “gioca al partigiano”?) spara alla casa
dei Pucci, uccidendo un bambino e ferendo al braccio il padre, che
resterà invalido. Questi vivrà la grottesca esperienza di ricevere il “brevetto Alexander” quale “partigiano ferito” e di subire al contempo un procedimento di epurazione come “fascista”, con conseguente perdita del posto di lavoro.
Seguono per la protagonista la lotta con la miseria e la sua vergogna, i
successi scolastici accompagnati da un sentimento di solitudine e
incomprensione nel rapporto con gli altri, la perdita definitiva del
mondo dell’infanzia toscana rappresentata dalla morte della nonna. La
narrazione di tutte le successive vicende torna sempre all’istante
dell’amara disillusione da parte di coloro “per i quali la guerra non è finita nel 1945”. (6)
“È la gente comune che ci angoscia, quella che si trasforma in un minuto e commette assassinio, delazione, oltraggio di cadaveri e, in un minuto, torna a piccole vite: onesta, grigia, solida, morale.
Questo è cambiato in noi, la fede che ci legava al mondo. Per il babbo è la fine. Per me è appena il principio di una tabe che cova a lungo e, pian piano, abbraccia tutto. Bisogna prima che fame e fame su fame rompa l’osso, e scoppi il male-frastuono delle cose. Poi torno alla gente con timidezza…”.
Romana Pucci, L’uva barbarossa, op. cit., pp. 123.
Note
Le
tracce sulla vita e le opere della scrittrice sono estremamente labili,
perché è presto scomparsa dai cataloghi delle case editrici per cui ha
pubblicato... Per chi la volesse almeno vedere e ascoltare risulta assai
coinvolgente l’intervista su Rai 2 (caricata su YouTube il 23 gennaio
2018, non integrale) durante la trasmissione Finito di stampare
condotta da Guido Davico Bonino; Romana Pucci – bionda cinquantenne,
carina ed elegante – è insieme al giovanissimo Pier Vittorio Tondelli
(1955 - 1991) reduce dal controverso debutto con Altri libertini
(Feltrinelli 1980). Entrambi parlano dei loro esordi letterari, degli
autori che amano (lei predilige Cervantes) e ognuno esprime un giudizio
sul lavoro dell’altro… Nell’intervista citata afferma che non si è
ispirata ad alcun modello letterario, ma ha cercato di lavorare molto sui dialoghi, grazie all’esperienza maturata nel teatro e nel confronto con attori e attrici. (12)
Per farla rivivere e rileggere – almeno nei luoghi tanto amati della sua infanzia – è stato organizzato il 7 dicembre 2019 un incontro pubblico nella Sala consiliare del palazzo comunale di Borgo a Buggiano, la sua cittadina natale. (2)
A parlare di questa scrittrice è stata Laura Candiani, che le ha dedicato un opuscolo, stampato dalla biblioteca comunale. (8)
La figura di Romana Pucci viene ricordata anche a proposito di “Letteratura italiana in Alto Adige”:
è
trascorso esattamente mezzo secolo da quando Eugen Thurnher, a
conclusione dell’antologia Dichtung in Südtirol (Tyrolia 1966),
segnalava la completa assenza di una letteratura italiana in Alto Adige e
la assumeva come prova dell’estraneità della popolazione italiana,
perlopiù immigrata dopo il 1919, rispetto al territorio e alla sua
anima...
Molto rari furono, persino negli anni ’70 e ’80, romanzi che richiamassero aspetti storici della provincia… Con grande intensità e pregio letterario, Romana Pucci racconta la propria adolescenza bolzanina nel romanzo L’uva barbarossa (Rusconi 1984) incentrando la narrazione sulla figura del padre ferroviere… ambientato a Bolzano nel periodo 1943-1945… (11)
La morte
Romana Pucci muore suicida il 10 novembre 1990, a Milano, gettandosi dalla palazzina in cui risiedeva.
Bibliografia
1955 Notte e strada (raccolta poetica)
1965 Uomini sandwich (raccolta poetica)
1973 L'estro del vino (testo teatrale)
1979 (scritto otto anni prima) La volanda (romanzo)
1982 Tempo curvo (romanzo)
1983 L'uva barbarossa (romanzo)
Testimonianze
“Dopo Proust non è facile scrivere libri autobiografici sull’infanzia, ma la Pucci ce la fa. L’autrice non ha una trama da offrire (quante infanzie ne hanno?), ma conquista il lettore facendo scaturire lo straordinario e il miracoloso dal quotidiano. Le pagine sul sopravvenire della pubertà e della mestruazione – percepite con corpo di donna – sono indimenticabili. Per la Pucci l’infanzia è un recinto fatato dal quale si viene strattonati a forza … ed è anche uno spazio di verità e saggezza al quale si deve saper ritornare.”.
Rino Scuccato (9)
"Bella scrittura, scrittura preziosissima, e gli episodi-immagine che lo compongono.". (20)
Greta Rosso
"L'ennesimo racconto di un'infanzia mezza selvatica, reso particolare però da un linguaggio artefatto, inventato, eccessivamente colto, quasi alchemico, che all'inizio infastidisce, poi cattura.
Così
come cattura il personaggio della protagonista, in cui ciascuna
lettrice non può non ritrovare qualcosa della bambina che è stata.
Assolutamente introvabile, lo si può reperire solo in qualche
biblioteca. Leggetelo.". (21)
Donatella Capizzi
Eventi esterni
Dal 16 dicembre 2010 al 19 dicembre 2010 La memoria del geco. A teatro rivive la figura della scrittrice Romana Pucci.
La Compagnia Betel Teatro propone la messa in scena dello spettacolo La memoria del geco, atto unico scritto e interpretato da Stefania Carcupino e dedicato alla figura di Romana Pucci, grande, dimenticata scrittrice del Novecento.
Emma, una studiosa ossessionata dalla passione letteraria per la scrittrice, gioca il tutto per tutto con un editore per pubblicare il suo studio e salvare la propria identità esistenziale insieme alla memoria di Romana Pucci: un gioco di specchi in cui la scrittrice da fantasma della mente assurge a lucida e folle voce interiore. Con Stefania Carcupino, Gianfranco Beffumo, Angela Pascalino, Barbara Nevano e con la partecipazione di Paola Terenzio (flauto traverso). Regia Gianfranco Beffumo.
“Un giorno per caso mi è capitato tra le mani un libro di una scrittrice che non avevo mai sentito nominare: Romana Pucci. Il libro era La Volanda, pubblicato da Einaudi nel’79 e mi folgorò per l’originalità, la bellezza, la poesia. All’inizio volevo scrivere un saggio, o un romanzo, o una biografia, poi la corrente di questa storia ha preso una forma teatrale. Ne è uscito questo testo, col quale spero di riuscire a restituire a Romana Pucci qualcosa di ciò che ha perso.”. (13)
Stefania Carcupino
Dalla parte di una bambina
Nella Volanda di Romana Pucci una metafora dell'infanzia come dimensione temporale della poesia - L'uso efficace di diversi registri linguistici.
Sulla copertina editoriale i grandi occhi spalancati della Medusa di Jawlensky riconducono alla memoria l'immagine del fanciullino pascoliano, “quello che ha paura al buio, perché al buio vede o crede di vedere: quello che alla luce sogna o sembra di sognare, ricordando cose non vedute mai; quello che parla alle bestie, agli alberi, ai sassi, alle nuvole, alle stelle, che popola l'ombra di fantasmi e il cielo di dèi”. Ed è, questa immagine, particolarmente significativa ed efficace per introdurre al romanzo di Romana Pucci (che Lalla Romano in una sua breve nota definisce “tipico romanzo di un poeta”: ma chi è, appunto, il fanciullino pascoliano, se non il poeta con cui “l'uomo riposato” ama parlare “e udirne il chiacchiericcio e rispondergli a tono e grave: e l’armonia di quelle voci è assai dolce, come d'un usignolo che gorgheggi presso un ruscello”?).
Fin dalle prime pagine de La volanda ci troviamo di fronte ad un progetto letterario di grande respiro: che si serve del genere romanzo e della prospettiva scelta - la scoperta del mondo attraverso le esperienze non eccezionali, almeno agli occhi di un adulto, di una bambina - per ridare corpo e sostanza alla grande metafora romantica dell’infanzia come dimensione temporale della poesia. Si direbbe quasi che Romana Pucci, pur trattando una materia che non può non essere in larga misura autobiografica, voglia prenderne le distanze quanto basta a significare che quelle esperienze, meravigliose per chi le ha vissute ma di fatto intercambiabili con altre esperienze, di altre persone, sono soltanto il suo personale filo d'Arianna che le permette di ritrovare nella vita e nella memoria la dimensione sempre presente e sempre inafferrabile dell'infanzia. E ancora: che le esperienze infantili passano ma l’infanzia resta; che l'infanzia sia alla vita come la “volanda” sta alla farina (ed è, dice il Petrocchi, “farina leggera che nel macinare s'innalza, e rimane attaccata ‘a muri’").
Il fanciullino, anzi la fanciullina di Romana Pucci vive, non sempre felicemente (ma chi ha mai detto che l'infanzia sia stagione più felice delle altre stagioni umane?), attraverso le proprie incertezze e i propri stupori, nella dimensione epica della creazione, in un mondo parallelo popolato di personaggi tanto più meravigliosi quanto più si riesce a intuire, dietro la loro immagine riflessa, deformata, l'aspetto realistico e quasi sempre bonario della quotidianità: il nonno, la nonna, il becchino Domenico partito volontario per l'Abissinia dove gli avevano promesso un pezzo di terra tutta per lui e dove si ebbe quel tanto di terra necessaria per seppellirlo, Bottarino l'aggiustatore di bambole, il dottore incontrato a cavallo nella notte, le vecchie dell'ospizio, l'adolescente Brunero, i mezzadri Satiro e Rosa...
Nella nota già citata Lalla Romano dice che La volanda è un “piccolo capolavoro” e mi sembra che si possa essere sostanzialmente concordi con questo giudizio. Per quanto mi riguarda vorrei sottolineare la parte non secondaria che in tale esito ha l'uso - sempre magistrale - di diversi registri linguistici, dall'aulico letterario al parlamento dialettale (che però, coerentemente con le scelte stilistiche dell'autrice, non è mai un parlare “basso”): e poi anche di un lessico così ricco e vario da non avere praticamente riscontri nella letteratura italiana recente, dov'è semmai in atto una diffusa e tutto sommato ingiustificata tendenza all'impoverimento. (14)
Sebastiano Vassalli
Un luminoso racconto d'infanzia
La volanda
Breve racconto d'infanzia, tortuoso e semplice, La volanda di Romana Pucci (ed. Einaudi) è una piccola opera dotata di una singolare e strana grazia. Di racconti d'infanzia ne sono piene le strade. Sembra a tutti facile evocare le proprie impressioni infantili. Questo racconto è però singolare. Ha difetti e manchevolezze, è diseguale, disarticolato. Ma si sente, fin dalle prime pagine, che la persona che scrive ha la facoltà di proiettare una luce sul suo mondo. Ciò provoca una sensazione precisa, la sensazione di essere in un punto preciso della terra, là e non altrove. Strano a dirsi, la facoltà di raccontare è la facoltà di fare esistere, prima ancora che dei visi o delle situazioni umane, un punto preciso della terra, e la sua luce. Romana Pucci è del tutto ignota, e questo è il primo libro che pubblica. Vive a Milano. È nata in un paese della Toscana, in provincia di Pistoia, e ha passato i primi anni dell'infanzia a Verona. Nel suo racconto, si intersecano la parlata toscana e la parlata veneta. La volanda è quella polvere bianca che copre le pareti dei mulini, quel velo di farina che resta nell'aria dopo che è stato macinato il grano. Nella memoria, gli anni dell'infanzia hanno lasciato una sfarmatura leggera, un velo che svanisce in un soffio. “Abitavamo a Livorno, in una piccola casa col pozzo nell'orto e due alberi, un gelso e un albicocco. D'inverno, impigliato nelle nocche degli alberi, il cielo sventolava un momento, e poi cadeva, sgualcito, oltre la siepe; d'estate i frutti sciroppavano al sole, un colaticcio vio-' [arancio che, di tanto in tanto, gorgogliava di bolle.”. “Avevo tre anni quando l'orto e la casa scomparvero. A Verona, nelle stanze affacciate sul vìcolo, il sole sgusciava sui balconi tra i gerani del babbo, e tramontava presto”. “Avevo perduto gli alberi e le stagioni della terra”. Il padre, ferroviere; la madre figlia d'un maestro elementare in pensione; le famiglie dell'uno e dell'altra; la nascita d'un fratello; le voci toscane che risuonano nel ricordo lontano della casa «col gelso e l'albicocco», o nella campagna dove vivono i nonni materni, visitati d'estate; le voci venete che risuonano, fra cortili e vicoli, nei mesi invernali; gli incubi notturni; la complicità col nonno, uomo assorto in se stesso, sereno e solitario; il crescere e il sentire insinuarsi nell'infanzia l'adolescenza, simile a uno sciame d'insetti venuti a devastare la fisionomia antica, a renderla irriconoscibile, a rivelare che niente è stabile, meno che mai la nostra immagine stessa; il mondo famigliare e il mondo di fuori, esplorato per incontrarvi pericoli, gettare scompiglio fra le pareti di casa, spargere fra quelle pareti paura, panico, lagrime, punire le persone di casa, e soprattutto la figura materna, della loro incoerenza, stravaganza, monotonia e fragilità; indagare il sesso, la notte e la morte. Questo il piccolo mazzo delle memorie che sono qui raccolte; e tutto questo, si dirà, non è nuovo. Ma nuova e strana è la luce che illumina l'intiero racconto, una luce fosca, di colore giallo e grigio, quasi si stendesse, sopra a quel mondo inoffensivo, senza drammi reali e forse felice, un cielo di nuvole sulfuree, l'attesa d'una prossima tempesta votata a distruggerlo. Tortuoso è lo stile del racconto, come se riflettesse, nelle sue frasi aggrovigliate e spinose, un rapporto con l'esistenza spinoso e contorto, e un intrico di gratitudine e di rancore nei confronti dei doni dell'esistenza, doni leggeri, stravaganti, soggetti a mutamenti e trasformazioni, così sfuggenti che il pensiero li insegue e li vede sparire prima di averli capiti; semplice e lineare e concreto, e nudo e ruvido, è il paesaggio dell'esistenza stessa. La figura materna, riottosa e scontrosa; la figura paterna, sollecita e ansiosa; su di esse si posa lo sguardo infantile, severo, ironico, amoroso e astioso, pronto a cogliere i malumori dell'una e le sottomissioni dell'altro. La madre: “... somigliava alle prime donne del mondo, girovaghe e peregrinanti dietro al sole. Fosse stato in suo potere si sarebbe cibata di bacche e di radici; oppure degli avanzi di qualche bestia abbattuta dagli animali più forti”. “Evadeva per lunghe ore ogni giorno, con qualunque tempo, dalle mura di casa, sulla traccia d'un cammino perduto: boscaglie e radure fuori porta, anse del fiume, castelli in rovina, bastioni invasi dai gatti randagi e guardati dal falco”. 11 padre: “... si inanellava le dita dei miei ricci fissando il vino nel fondo del bicchiere, un dito schietto per scaldare i bocconi: "Anche oggi è passato, se Dio vuole... e si è chiusa la porta, e si è stesa la tovaglia...". Mite e umile davanti alla madre, intimorito e disorientato dai suoi silenzi, egli suggerisce ciò che gli sembra la possa ammansire: “Una lista di pelliccia per il bavero del cappotto... Un cappello nuovo con la veletta a ponfi di ciniglia... Quel busto colore glicine in mostra dalle sorelle Rebbi...”. Le parole che rivolge invece la bambina alla madre sono dure e rabbiose: “Ti avverto che te ne puoi andare anche subito, col tuo bambino maschio... Ho saputo che il babbo ti scambierà con un'altra mamma, buona e bellissima...”. Il nonno: “Canuto, asciutto, vestito immutabilmente di nero, lo sparato bianchissimo dal lucore di salda, sottile e senza ciondoli la catena dell'orologio sul panciotto, il nonno non aveva una figura importante: fierezza e gracilità si confondevano l'una nell'altra. La piccola testa di oratore, eretta sul collo magro, lo faceva apparire più alto e sicuro di quanto non fosse”. Non c'è, nel racconto, alcun segno dell'epoca in cui è situata questa infanzia, o meglio i segni sono impercettibili: la veletta, la catena dell'orologio. È un'epoca lontana; un'epoca in cui la realtà era, o si credeva fosse, stabile, solida, senza sussulti, i nuclei famigliari indissolubili, le mura delle case indistruttibili e ospitali. Agli occhi della bambina, nel racconto, la realtà appare invece vacillante e insicura; le case non emanano calore alcuno e sembra sempre che uno sgombero o una lacerazione siano imminenti; la quiete della campagna appare come un bene labile che tra poco ci sarà sottratto; gli uomini sono fragili e le donne corrucciate e amare. Le parole del padre al termine della giornata, “e si è chiusa la porta, e si è stesa la tovaglia”, suonano incerte e tristi, come vi fluttuasse un'ingenua simulazione di pace domestica; suonano in stanze strette, disordinate e ingombre, dove pesa un presagio di devastazione. Per questo, la bambina cerca asilo fuori dalle pareti di casa, imitando la madre nei suoi cupi vagabondaggi; cerca alleanza con sconosciuti passanti, segue funerali di ignoti singhiozzando di dolore; si finge zoppa, così da suscitare nella madre spavento, e negli estranei pietà; lutti, conflitti e malattie, assenti momentaneamente dalla sua vita, sono costantemente evocati e corteggiati dalla sua immaginazione. Senza che una sola sillaba sia spesa per delineare il futuro, il futuro è tuttavia presente nel disegno di questo paesaggio infantile, il quale non è per nulla rimpianto come un verde paradiso perduto ma appare come un angolo di stanza angusto, rotto e assediato o come un angolo della terra prossimo a precipitare nel buio. E molte sono qui le zone deboli, o confuse e pallide, o anche letterarie; e tuttavia ricordiamo fortemente l'ironia amorosa e acerba di questa fisionomia infantile e alcune fra le figure che la circondano, e la luce dei luoghi: e non è poco. (15)
Natalia Ginzburg
Un attimo di felicità.
La critica letteraria di Natalia Ginzburg.
Nella critica letteraria di Natalia Ginzburg domina il gusto verso autori appartati e sommersi, poco conosciuti dal pubblico oppure già affermati ma dalla notorietà ristretta e non sufficientemente apprezzati dal punto di vista estetico. Si collega a questo una polemica nei confronti di scrittori che troppo si lasciano condizionare dall’industria culturale e che tentano, invano, di costruire opere caricate da una ingombrante patina intellettualistica. L’ideale estetico della Ginzburg ricerca testi capaci di fondere complessità e naturalezza, gusto del narrare e ricerca stilistica sulla parola. Si nota poi che la critica della scrittrice si indirizza verso autori che hanno dato una visione altamente problematica, se non negativa, della Storia e che hanno cercato nel loro lavoro di esprimere il senso di una, forse impossibile, felicità del vivere… Innanzitutto si nota un’attenzione, se non esclusiva, comunque dominante per i contemporanei e, entro tale ambito elettivo, una decisa predilezione verso autori appartati e per così dire sommersi, scrittori che potrebbero essere in misura diversa definiti “rifiuti dal cestino”… così Delfini e Landolfi “il pubblico li ha sempre letti poco”… e anzi, a proposito di Antonio Delfini, la Ginzburg ritiene che, “salvo qualche critico, e qualche suo amico, nessuno abbia memoria di lui e nessuno legga i suoi libri”… lo stesso a proposito della scrittrice canadese Elizabeth Smart: “Forse nessuno legge Sulle fiumane della Grand Central Station mi sono seduta e ho pianto… Forse nessuno lo legge. I giornali, che io sappia, non ne hanno parlato; se ne hanno parlato, ne hanno certo parlato poco. D’altronde penso che in Italia pochi abbiano mai sentito nominare Elizabeth Smart”… similmente, del libro di Jona Oberski “non ha parlato nessuno, in Italia”… Romana Pucci risulta “del tutto ignota”… (3)
Andrea Rondini
Romanzi di Ramondino e Pucci.
Due donne esplorano i riti dell'infanzia.
Tra i narratori emersi nelle ultime stagioni… al suo secondo libro è anche Romana Pucci, toscana oggi trapiantata a Milano, e già autrice di un romanzo, La volanda (Einaudi), che era molto piaciuto a Lalla Romano e a Natalia Ginzburg. Anche la Pucci privilegia il tema dell'infanzia, ma è temperamento essenzialmente lirico, quanto la Ramondino è razionale ed enciclopedica. Usa la prima persona, ed è subito chiaro che le preme fare i conti con un passato che brucia ancora. Qui l'ambiente è proletario: una piccola famiglia che vive in dignitosa povertà, un padre ferroviere che dedica un culto ingenuo a Mussolini, venerato come padre provvido e buono, ignaro delle malefatte del suoi stessi fedeli; e non sa di essere lui stesso l'uomo idealizzato in quelle fantasie di naif. Nell'atmosfera manichea dell'immediato dopoguerra, il padre pagherà per colpe che non ha commesso, ma resterà fedele alla sua visione del mondo. Il romanzo è il tributo di amore e furore e pietà che la figlia gli dedica dopo tanti anni: un libro in cui la tensione e l'ansia di rivalsa ogni tanto si liberano in immagini come rivelate dai lampi di un temporale, schegge impressionistiche costruite con un lessico personalissimo (“alberi icosaedri”, “erbe smeriglio”, “l'alba incilestra la canizie invernale”, “sgrizsolare di faville”). Questo sofferto coinvolgimento autobiografico non appare tutto decantato come nella Volanda. E tuttavia la Pucci va incoraggiata a mettere nuovamente alla prova il suo non comune talento. (16)
Ernesto Ferrero
La volanda, felice esordio narrativo di Romana Pucci.
Nel bozzolo dell'adolescenza.
Notevole esordio di una scrittrice già nel pieno possesso dei propri mezzi (e, quel che più conta, nella piena consapevolezza delle proprie intenzioni), La volanda è, a prima vista, una sorta di racconto-memoriale sull'infanzia e l'uscita dall'infanzia, sullo sfondo di un'Italia doppiamente “piccola”, cioè piccolo borghese e provinciale o addirittura paesana. Tema non nuovo, anzi decisamente abusato e per questo insidioso, che l'autrice affronta tuttavia con molta sicurezza esercitando su di esso, per così dire, una presa a forbice: da una parte, l'attenzione compiaciuta e microscopica ai dettagli di un'esperienza aurorale e di una realtà estremamente circoscritta e “dialettale”; dall'altra, la tensione continua, quasi ossessiva verso una sorta di assoluto linguistico. La divaricazione è funzionale; è, ripeto, un modo di far presa su una materia ovvia e scivolosa senza rinnegarla, ma senza lasciarsi invischiare. E l'effetto, in fin dei conti; è quello di un mondo salvato: strappato al bozzettismo, al verismo minore, alla congiura dei sentimenti e messo al sicuro in una zona ben altrimenti respirabile di certificazione e trasfigurazione verbale. Ed ecco, allora, che anche quel parlato cosi minuziosamente “dal vero”, quel pullulare di locuzioni toscane di libro di lettura - fra Giannettino e Gianburrasca - che all'inizio, lo confesso, mi hanno dato l'impressione di legare i denti come una cucchiaiata di marmellata troppo dolce, prendono un senso diverso, diventano semplici lettere di un alfabeto che le trascende, semplici tessere di un mosaico stilistico altamente consapevole, compatto e rigoroso. Come si sarà intuito dalle osservazioni che precedono, La volanda non è di quei libri che si possono raccontare. Raccontandolo, anzi, si rischia di distruggerlo, riducendolo a una misura bozzettistica e piccolo intimistica che, l'ho, già detto, costituisce solo il suo antefatto o, se si vuole, il suo falso obbiettivo. Risparmierò dunque al lettore ogni tentativo di informarlo sulla situazione familiare della protagonista narrante (che è poi la più consueta che si possa immaginare: babbo e mamma, nonno e nonna, un fratellino minore...) e sulle imprese normalmente patetiche e bizzarre da lei compiute dai primi mesi di vita sino all'ingresso - drammatico, fantastico e rituale come si conviene - nell'adolescenza. E lo inviterò invece ad accingersi alla lettura di questo “piccolo capolavoro” (la definizione non è mia, ma di Lalla Romano, generosa e acuta presentatrice del volume) con la stessa attenzione alle avventure della sintassi e del ritmo, al concreto aggregarsi della frase e della pagina, allo sparire del senso apparente del discorso dentro il configurarsi oggettivo e organico del significante, che userebbe (tanto per fare un esempio limite) nei confronti di una “paginetta” di Pizzuto. (17)
Giovanni Raboni
Premi Viareggio e Strega.
Ai premi Viareggio e Strega un finale con pochi brividi.
Renzo Rosso per ora favorito al Ninfeo di Valle Giulia - Per il Premio versiliese si fanno i nomi di Francesca Sanvitale, Antonio Porta e Alberto Arbasino. Roma - Martedì 10, nella casa di Leonida Repaci ai Parioli, si vota per i finalisti del Premio Viareggio. Arrivano in aereo i giurati del Nord, arrivano accaldati dall'estate improvvisa i giurati romani. Subito fervono discussioni, si procede verso giudizi e accordi. I concorrenti sono numerosi, non mancano i libri di qualità e gli autori illustri. C'è da dire che non v'è quasi più autore che si neghi la speranza e l'ambizione di un premio, né v'è editore che si sottragga all'agone. A quanto è dato sapere in questa semifinale non s'accendono guerre: se ne prevedono per l'ultima votazione. Ma badiamo ai risultati della serata. Le elezioni sono sei e, per la poesia, e per la saggistica opera prima, la cinquina comprende sette autori. I promossi alla finale sono… 4) Per la narrativa opera prima: Olivo Bin, Storia di un bocia, Città armoniosa; Antonio Campobasso, Nero di Puglia, Feltrinelli; Isabella Bossi Fedrigotti, Amore mio uccidi Garibaldi, Longanesi; Romana Pucci, La volanda, Einaudi; Pier Vittorio Tondelli, Altri libertini, Feltrinelli… Per le opere prime di narrativa i consensi più numerosi vanno al libro, considerevole e non abbastanza considerato dalla critica, di Romana Pucci, carpisce molte simpatie il libretto arioso di Olivo Bin, non sono trascurabili le attenzioni per il libro della Fedrigotti bocciato al Campiello…
Giovedì 12, in casa di Maria Bellonci, si vota per lo Strega… Mai come quest'anno chi è presente intuisce quanto, per ottenere un premio, contino i rapporti personali, e gli umori e le passioni individuali, e questi vanno ben al di là dei tanto denunciati giochi di potere. Così è possibile capire come, inaspettatamente, i voti previsti per un'opera vadano a un'altra… (18)
Viareggio, lunga lotta per Terra, Erba e Fachinelli.
Il Premio Viareggio è arrivato alla cinquantunesima edizione. I vincitori sono stati, per la narrativa, Stefano Terra, autore del romanzo Le porte di ferro (edito da Rizzoli); per la poesia Luciano Erba con Il nastro di Moebius, (Mondadori); per la saggistica Elvio Fachinelli cori La freccia ferma, (edizioni de L'Erba Voglio). I premi “opere prime” sono andati a Olivo Bin per il romanzo Storia di un bocia, (Città Armoniosa)…
Viareggio - Sono arrivate Margherita, Francesca, Romana? No, pronte tutte e tre a partire perché in gara fino all'ultimo minuto o quasi, si sono viste distanziate a stretta maggioranza da tre concorrenti maschi. E così la Guidacci (poesia), la Sanvitale (romanzo) e la Pucci (narrativa opera prima) dovranno aspettare prossime ispirazioni, triangolazioni più favorevoli e migliori fortune… (19)
Maria Luisa Spaziani
Romana Pucci: “La volanda”
Ascoltando le voci dell’infanzia…
Questo romanzo d'esordio di Romana Pucci, considerato da un giudice severo come Lalla Romano “un piccolo capolavoro: piccolo per la mole, s'intende; e poi si dice cosi per attenuare la pomposa definizione”, è un'opera certamente singolare, che riesce ad apparire nuova e vitalissima nonostante appartenga alla fin troppo sperimentata letteratura della memoria o del “com'erano verdi le mie vacanze”, e sia composta d'una linda serie di capitoli-bozzetti, illeggiadriti, per di più, da una lingua toscana levigata, ricercatissima e musicale sino alla temerarietà e alla provocazione.
Nonostante tutti questi handicap “La volanda” è libro autentico, godibilissimo e assai moderno. Perché? Perché l'ascolto della propria incantata infanzia non è fine a se stesso, non è abbandono compiaciuto ai ricordi, ma è frutto di un duro scavo in una miniera dell'inconscio ricca di tesori, non di carabattole da rigattiere.
Quanto alla lingua, la coloritura toscana la fa sì da dittatrice, tanto che verrebbe voglia (ma sto scherzando, via...) che la Pucci l'avesse risciacquata un tantino nei Navigli, ma pur con tutte le sue civetterie che a un lettore del Nord possono persino parere gergali, non ti dà l'impressione del bla-bla bamboleggiante di certo fiorentinismo preso in giro anche da Paolo Poli nei suoi cabaret.
Ciò che poi rende del tutto vincente e convincente “La volanda” è la figura del nonno, un protagonista schivo che, con il pudore dei vecchi, appare e scompare di soppiatto. In eterno diverbio con le donne adulte di famiglia, che lo sopportano o gli danno dello stravagante, si fa complice della nipotina, ed è attento a insegnarle, da antico maestro, l'uso della fantasia. Cosi tutte le scorribande dei due, dalla prima esplorazione mattutina tra i prati, alla scoperta finale del “cimitero delle scarpe”, sono come fiabe stupende il cui aereo nocciolo resta una libera lezione di vita. (23)
Alfredo Barberis
Un libro al giorno / Romana Pucci
Rapporto padre-figlia
Romana
Pucci esordì nel 1980 con un piccolo gioiello narrativo, La volanda:
delizioso nelle proprie invenzioni stilistiche e quasi perfetto nella
sua pur esile struttura. Questo nuovo romanzo, L'uva barbarossa,
ripropone sostanzialmente il tema di quella prima prova, ma non ne
riproduce più, purtroppo, l'originalità d'impostazione e la freschezza
di stile. La volanda era tutto giocato sul registro di un confronto
fittissimo tra una cupa realtà ed una volontà caparbia di sogno, tra il
desiderio di rimanere ben chiusi in un limbo di “presagi favolosi” e la
condanna (accettata) a vivere una realtà cruda e dolorosa. Questo è
anche il nucleo tematico dell'Uva barbarossa; tuttavia l'andamento
cronachistico del nuovo racconto appiattisce in una dimensione
orizzontale la narrazione, togliendole quello spessore di memoria,
quella dimensione verticale, ch'era propria della Volanda. Romana Pucci
racconta qui la propria intesa sentimentale con il padre e ripercorre il
suo itinerario di vita, con l'infanzia mitica in Toscana e
l'adolescenza grigia trascorsa, più che vissuta, nel Nord. Il racconto,
anziché svilupparsi su una sovrapposizione ad incastro di tempi, si
snoda cronologicamente: invece di privilegiare la prospettiva unica
dell'”io”, punta più banalmente ad un'oggettivazione narrativa. Nell'uva
barbarossa accade allora che oltre all'io narrante entrino, a tutto
tondo, altri personaggi. E sono personaggi un poco ingombranti della
storia (Mussolini ed i suoi gerarchi), oppure sono personaggi familiari.
Il padre, soprattutto, il cui ritratto si riassume in un sorriso; un
sorriso che è “festoso, tenero, burlesco, saggio, imbonitore, ironico,
disarmato”: quasi un “filtro che distilla la vita e, con gli anni, ne
scopre ogni mistero”. Ebbene la vicenda del padre si compendia nella
trasformazione di questo sguardo ridente che, con il passare del tempo,
s'incupisce, per arrivare a “trapassare” il mondo, per “vederlo tutto al
negativo. L'uva barbarossa è dunque la storia di una rapporto, un
rapporto intensissimo, per quanto “severo, chiuso alla confidenza”, tra
un padre ed una figlia; ma insieme vuol diventare la storia di un
rapporto esclusivo che si lascia inquinare dal mondo. Romana Pucci non
ha strumenti sufficienti ad organizzare questo ampliamento del suo tema:
procede perciò per un'accumulazione impropria sul racconto di diversivi
narrativi, che non si organizzano nella struttura del romanzo e
rimangono anzi ad essa estranei. Ne subisce oltraggio persino la
scrittura della Pucci, che ha ancora qualche splendido sprazzo di luce,
ma che s'imbroglia troppo spesso in trucchi, che son vezzi e non
invenzioni stilistiche. (24)
Giorgio De Rienzo
Antologia di cicatrici
L’editore Einaudi ha ritrovato lo spirito dei “Gettoni” di Vittorini. Ha richiamato in direzione Natalia Ginzburg e le ha affidato le chiavi di un vecchio armadio pieno di manoscritti di narratori esordienti. Da questo armadio è venuto già fuori un piccolo capolavoro di stile come La volanda di Romana Pucci, una casalinga milanese, di cui i critici hanno parlato molto bene… (25)
Giorgio De Rienzo
Polemiche / Gli inediti pubblicati dal “Corriere” scatenano le reazioni dei lettori
Ma quante chiacchiere attorno ai coniugi De Amicis
Qualche
settimana fa è apparso su queste pagine un mio articolo su De Amicis:
un “De Amicis senza cuore”, descritto così in due “libelli” infuriati
della moglie Teresa, sposata da Edmondo nel 1875 e da lui abbandonata
nel 1899. Non credo d'avere commesso un grave delitto, registrando pari
pari il punto di vista di una donna, la quale (comunque fossero andate
davvero le cose) si dice “avvilita” e “offesa”; dando voce ad una
protesta disperata soprattutto dal timore dell'oblio. “Dopo una vita
intera d'amore, di sacrifici, di strazi ineffabili”, spiega la signora
Teresa, rivolgendosi ai posteri, “non devo permettere che anche la
sgualdrina dell'avvenire spacci frottole sul conto mio coi degenerati
creduloni”.
Ebbene, toccare De Amicis, ancor oggi, procura qualche
guaio. Sono decine e decine le lettere che mi hanno inviato anziani
lettori: letterine non tanto patetiche, quanto invece indignate, qualche
volta persino violente. “Dissacrare i miti della giovinezza di molti
noi anziani, mi sembra di cattivo gusto e limitato buon senso”, mi
scrive il signor Michele De Liguori; e poi insinua: “Pensi se invece di
De Rienzo la chiamassimo De Rionzo, che fa rima...”; fermi li. Ma c'è
anche di peggio. “Che guadagno ricava a ravanare in pattumiera per
screditare De Amicis?”, mi domanda Romana Pucci. E poi aggiunge
non molto carina: “La sento crudele come un omosessuale femmina
frustrato: lei è malevolo, crudele, tortuoso, dispettoso, acido,
rancoroso, pissi pissi...”. E così via insultando. Fino a questo: “Con
tutto il cuore (visto che io ce l'ho), con tutta l'anima, col pensiero,
con tutta quanta la forza che ho ancora racchiusa nella mente, con fede
indefessa, quotidiana io aspetto questo necrologio: ‘Dopo lunga,
umiliante malattia, oggi Giorgio De Rienzo affronta la vendetta dei
morti’”. Nientemeno. Tocco ferro, signora; mi scusi. Non oppongo a
questi miei lettori delle buone ragioni di mestiere, ma soltanto tutta
intera la mia bella cattiva coscienza. Studiando De Amicis ho trovato
per caso documenti curiosi: la scoperta mi ha divertito. Punto e basta.
Ho vergogna (un pochino), ma non sono pentito: non ho mai amato Cuore,
l'ho sentito sempre per istinto, non soltanto un po' ambiguo, ma
rischioso nel suo conformismo perfettino. E allora, volentieri,
m'accanisco: e mi faccio ancor più partigiano di madama Teresa De
Amicis. Tra le lettere che ho ricevuto ce n'è stata anche una gentile:
mi è arrivata da Adriana Camani, che raccoglie per hobby autografi di
scrittori e musicisti. La signora Camani, alla sua, mi ha allegato una
lunga lettera di De Amicis. Questa lettera, diretta a un “monsignore”, è
inedita e porta la data dell'ottobre 1875. Lo scrittore già glorioso
chiede qui di poter sposare (con il “solo rito religioso”) una “buona e
sfortunata ragazza”, che ha il “dovere” di sposare: ha bisogno - cosi
dice - di un “matrimonio rigorosamente segreto”, a evitare “dolori”
sicuri, forse “scandali”. Molto avanti negli anni, De Amicis, a mezze
paroline, farà intendere ad arte che la propria storia d'amore con
Teresa era stata viziata all'origine da un peccato molto ovvio. Ma la
moglie ha l'anagrafe dalla sua e ricorda con certezza le date: “Ci
sposammo - ribadisce precisa - nel novembre del '75: e il mio primo
figlio nacque nel febbraio del '77”. Basterebbe solo questo; tuttavia a
spiegare la sua vita di fanciulla sfortunata ma purissima, fino al
giorno del matrimonio, la signora De Amicis ha impiegato molta carta e
molto inchiostro. Non ci sono infatti solamente i due velenosi “libelli”
sequestrati fino ai limiti del possibile dal potente marito. Per chi ha
voglia (e anche tempo) c'è persino un lungo romanzo di Teresa De
Amicis. Il romanzo s'intitola Conclusione ed è stato pubblicato a Torino
nel 1901, sotto firma di “Calista”. Lo si trova ancor oggi tra i libri
di consultazione riservata della Biblioteca Nazionale di Torino, in una
copia che vien detta “unico esemplare di un'intera edizione”, tutta
quanta bruciata dagli eredi. Il romanzo racconta l'infanzia e
l'adolescenza di Teresa, vale a dire la vita di un'orfana torturata da
un patrigno scellerato. È una vita vittoriosa, perché l'“orfana” rimane
illibata e arriva a ottenere la sua bella “patente” di “maestra”. Con
riflessione autocritica la signora Teresa parla anche del suo “stile
distrutto” dai “continui singulti del dolore”. La sua penna - così dice -
è perciò “affaticata”, ma vuol essere soltanto “implacabile strumento
di giustizia”. L'obiettivo di questa “giustizia”, in via generale, è
tutta insieme la “nuova società”, che si crogiola nella “turpe
menzogna”. Dopo ciò la scrittrice prolissa punta il dito su quelle
“femmine” scellerate, “cacciatrici di mariti infedeli”, che “triturano
la donna savia come il prezzemolo sotto la mezzaluna”. Ma in via
subordinata l'obbiettivo diventa, anche qui, un “marito un po'
abbietto”, che se “fuori” sa “riuscire nelle figure più sublimi”, dentro
casa è stato “volgare e anche tristo”. Quel marito vive in gloria,
coccolato, mentre lei, la nostra Teresa, mangia bile e vergogna. Dare
ascolto, per un attimo, al suo sfogo, non può dunque essere stato un
gran male. (26)
Giorgio De Rienzo
Le "confessioni" di Ridolfi
Caduto per via proprio come Parini
La volanda
- Pubblicato da Einaudi, così s'intitola un libro di Romana Pucci; ed è
il suo primo libro. Ne avevo letto molte pagine prima che mi capitasse
quel che ho raccontato qui sopra. Poi, non potendo più leggere, mi ha
fatto una compagnia muta durante il lungo patire.
Chi sa quanto io sia svogliato lettore dei libri che oggi si scrivono avrà ragione di trasecolare;
ma questa scrittrice è entrata nel mio fortilizio come lettrice: per un
moto spontaneo dell'animo, mi offrì il libro ancor fresco di stampa
dopo aver letto una di queste prose. La sua lettera, e soprattutto lo
stile della sua lettera, mi invogliarono a leggerlo.
Sono ricordi
d'infanzia, tanto per non mutare; ma in questo genere di scritture non
sono i ricordi che importano: è l'impronta poetica che hanno lasciato
nell'anima di chi li scrive. Del libro, che farà molta strada, altri
dirà (e spero anche su queste colonne): qui, io fabbro di pagine, voglio
soltanto trattare poche cose da fabbro.
Fino dalle prime righe, si
sente che a Romana Pucci piacciono le parole, anzi ne è ghiotta: il suo
lessico è straordinariamente ricco, anche di vocaboli vernacoli e
gergali, campagnoli e artigianeschi, inconsueti e desueti; certo si ha
l'impressione che sia stata lei stessa a coniarli o a variarne il
significato. Le parole e le locuzioni più saporose sembra golosamente
succhiarle come se fossero caramelle. Talvolta può venire perfino il
pensiero che esageri; ma no, è il bello di questo libro, che non sarebbe
così bello se non fosse fatto così: certi difetti più evidenti sono tra
i suoi pregi migliori.
Accade anche che proprio da alcuni di tali difetti (vengono alla mente certi pittori naïfs) proceda la poesia di questo racconto. La volanda è lo spolvero, il pulviscolo impalpabile prodotto dai mulini durante la macinazione. L'esistenza quotidiana incomincia a macinarci fin dai primi anni; i ricordi incantati della fanciullezza sono come un pulviscolo che si stende sulle cose e sulle nostre anime, circonda di un alone magico la lampada della vita. (27)
Roberto Ridolfi
Sull'ondata antisemita
È
vergognoso e infame che tutto il mondo, attraverso ogni via di
comunicazione possibile, avalli subdolamente una nuova ondata
antisemita. Israele oggi è uno Stato come un altro, e dev'essere
chiamato a rispondere dei propri delitti, o delle proprie connivenze col
delitto, in quanto Stato, non in quanto popolo, religione o, peggio che
peggio, razza. Gli ebrei degli altri Stati della terra, e cittadini dei
medesimi, non possono rispondere, né debbono pagare, per le decisioni
politiche aberranti di un Paese, sia pure d'origine, ma che non è il
loro. Non esiste che una razza: quella umana. In quanto esseri umani,
siamo tutti responsabili del male insensato che seguitiamo a farci l'un
l'altro. La “Cristianità” gronda dl delitti spaventevoli, e il genocidio
è il più frequente. Ma non si scrive, né si dice mai che i “cristiani”,
fecero, o insistono a fare questo o quello: se ne cita la nazionalità.
Perché si ritiene indispensabile specificare ogni volta gli ebrei
“italiani”, gli ebrei “americani”, gli ebrei “francesi” e via dicendo? È
un discrimine occulto che gli italiani ebrei, i francesi ebrei e gli
americani ebrei finiranno per eleggere a distintivo di nobiltà,
dissociandosi, inconsapevolmente, dal contesto comune. Se già non sta
succedendo. (22)
Romana Pucci (Milano)
Bibliografia
I link del Corriere della Sera non si apriranno se non si è abbonati.
(1) Note per Romana Pucci Bruni – Il Cristallo (Anno 6, numero 2, dicembre 1964) pp. 43-60 Centro di cultura dell'Alto Adige - Rassegna di varia umanità, diretta da Giuseppe Negri. Bolzano - dicembre 1964 Anno 6 - Numero 2
(2) Laura Candiani 16 maggio 2020 Link
(3) Rivista di letteratura italiana, 2005.XXIII,3 Link
(4) Tuttolibri Nuova serie Anno VIII n.309 La Stampa - 3 aprile 1982 (p. 2) Anno 116 Numero 71 Link
(5) Prefazione di Lalla Romano ne' La Volanda Link
(6) La “terra d'esilio” di Romana Pucci - Carlo Romeo 14 Aprile 2009 Link
(7) Corriere della Sera - 19 settembre 1973 Link
(8) In biblioteca si parla della scrittrice Romana Pucci - 5 dicembre 2019 Link
(9) 25 Gennaio 2017 Link
(10) Enciclopedia Treccani Link
(11) Letteratura italiana in Alto Adige - Carlo Romeo Link
(12) Intervista a Romana Pucci in Youtube Link
(13) Stefania Carcupino - La memoria del geco Link
(14) 24 gennaio 1980 L’Unità (pagina 9) Link
(15) La Stampa Anno 114 - N.6 - Martedì 8 Gennaio 1980 Link
(16) Tuttolibri Anno IX N.370 – Supplemento a La Stampa del 30 luglio 1983 Link
(17) Tuttolibri Anno VI N.1 – Supplemento a La Stampa del 12 Gennaio 1980 Link
(18) Tuttolibri Anno VI N.23 – Supplemento a La Stampa del 21 Giugno 1980 Link
(19) Tuttolibri Anno VI N.25 – Supplemento a La Stampa del 5 Luglio 1980 Link
(20) 27 dicembre 2008 Link
(21) 21 agosto 2007 Link
(22) Corriere della Sera 28 settembre 1982 Link
(23) Corriere della Sera 15 giugno 1980 Link
(24) Corriere della Sera 20 maggio 1983 Link
(25) Corriere della Sera 8 giugno 1980 Link
(26) Corriere della Sera 16 aprile 1986 Link
(27) Corriere della Sera 22 febbraio 1980 Link
Varie
Anteprima limitata del file Pdf completo (in francese) de' La Volanda.
Romana Pucci est née à Borgo a Buggiano, près de Pistoia, en Toscane. Elle a fait ses études à et à Padoue, et vit à Milan. Nous publions ici Ies premières d'un roman inédit en français, La Volanda paru en 1979 chez Einaudi. Comme le qualifie la romancière et critique Lalla Romano, La Volanda s'offre comme un roman “neuf” et fort original sur un thème traditionnel, celui de l'enfance. Récit de la propre enfance de l'auteur, qui tient à la fois du rêve et du souvenir précis. La narratrice parle comme s'il ne s'agissait pas d'elle, absorbée dans une sorte de retour à ce qu'elle fut, enfant, et comme si son regard éclairait, ici ou là, tel détail aussi complexe qu'un monde....
La première terre.
Pucci, Romana. Europe; Paris Vol. 71, Fasc. 775, (Nov 1, 1993): 158.
ProQuest - Scholarly Journals Link
Milano, 8 novembre 2013.
Una libreria di via Albertini, il “6rosso”; fuori un diluvio di gocce d’acqua incessanti, penetranti, di quelle che si infilano fin nelle ossa, si adagiano sul cuore, coprono il cervello, isolandolo dal resto del corpo. Dentro, un’atmosfera calda, ospitale, colorata dalle copertine variopinte dei libri, dalle matite saltellanti nelle loro custodie,, dalle luci sommesse, ma luminose al punto giusto, per offrire la pace necessaria, per cercare e consultare libri.
La nostra ospite, Sabina, una donna vitale, competente, di quelle che sai che ti offriranno il libro giusto, perché hanno capito subito cosa cerchi: un ambiente, questo, dove sai che nulla avverrà di ampolloso e accademico, ma tutti si sentiranno parte di una cordiale chiacchierata tra gente di cultura, venuta qui per affetto verso i relatori o l’autrice o la giovane lettrice o, ancora, per curiosità verso il libro, sedotti dall’atmosfera amichevole della libreria.
Dopo le presentazioni doverose da parte di Sabina, prende la parola Lucio Felici, un intellettuale nobiluomo, come ce ne sono pochi, che con il suo solito tono tra il serio e l’arguto, mi parla del mio libro, senza ipocrisie, cogliendone i meriti e sottolineandone velatamente, con garbo le demarcazioni.
Bruno Nacci, alla mia sinistra, dall’apparente severità, dietro la quale brilla uno sguardo solidale, analizza i miei due incipit, volutamente diversi, e li mette a confronto con quelli di altre quattro donne, scrittrici di cronache familiari, proponendone la lettura: Natalia Ginzburg in Lessico Famigliare, Romana Pucci, in La volanda, Beatrice Solinas Donghi, in L’estate della menzogna, Lilli Gruber, in Eredità...
Scelti i finalisti del Premio Viareggio...
L’Unità 12 giugno 1980 Link
Corriere
della Sera 12 luglio 1980 Link
Davide Nebuloni
SacroProfanoSacro (SPS_IO) 2021
prospettivavita@gmail.com
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