Ricordo, da “piccolo”, che ci piaceva un sacco fare la “capanna”. La location era un piccolo paese confinante con campi agricoli, seppure collegato con il “comune” e dunque anche con le città. Da lì era possibile immergersi in campi e boschi “vecchio stile” o secondo tradizione contadina. C’erano ancora situazioni “ottocentesche”, così come cascine ed un intero grande cortile da lavoro rimasto congelato nel “tempo”.
Il nonno aveva preso in affitto un piccolo terreno che aveva provveduto ad avviare ad orto, tuttavia, noi altri ci giocavamo come se fosse un intero mondo inesplorato ed, ovvio, avevamo costruito la più che classica capanna (sul modello più semplice rispetto a quella “su albero”, che conoscevamo attraverso il “Manuale delle Giovani Marmotte”). Eh sì:
Qui, Quo e Qua erano davvero fortunati nel potersi “ritirare” sull’albero del giardino, tirando su la scala o la corda e, così, tenendo sempre a debita distanza lo “zio” perennemente arrabbiato col mondo, per via dei debiti con lo “zione”).
Noi però ci accontentavamo, perché una volta che chiudevamo la porticina, fatta con una vecchia ex-coperta, eravamo protetti da tutto e tutti. C’era anche un buco nel muro di cinta attraverso cui potevamo “guardare fuori”. A me piaceva soprattutto quando pioveva e, allora, venivo pervaso da un piacevole sentore o sentire caldo, proprio, avvolgente, empatico a tuttotondo. Ah, ricordo ancora quella pioggerella che, rimanendo all’asciutto in contemplazione, rintoccava attraverso lamiere accatastate, grondaie groviera, assi di legno e resti fossili (attrezzi da lavoro):
una sinfonia da brividi che, certamente, costituiva un punto di ri-unione e contatto con se stessi e, chissà, probabilmente col tutto.
Erano gli anni ’70.