La Rivoluzione
di
Bolivian Dundee…
Con la meta che si stagliava all’orizzonte: il tabaccaio, in fondo alla via. Come se scrutasse l’orizzonte su una nave intenta a solcare l’oceano. Come Colombo o chi per esso. In giro non c’era un’anima. Neanche un animale. Qualche veicolo. La mareggiata comportava questa situazione, allontanando dallo stare all’aperto. Riscaldando ambienti. Paventando gli ordini del giorno dopo. Temendo per ciò che si stava rimandando ed accumulando. Finendo per naufragare anche senza uscire di casa. Con finestre e tetti che osservavano al posto di chi vi ci abitava, riflettendo. Può, una storia, non avere senso? Il nulla è fattibile? Come l’incanto o un sogno senza risveglio. Aveva l’ombrello che scioperava al contrario, facendo passare piccole gocce che ricamavano appena oltre al capo, sull’abito che minacciava di cambiar colore, oltre che pesantezza. L’umido s’annidava in risvolti pianificando il terreno. Non sembrava possibile parlare con nessuno, perché nessuno aveva deciso di essere lì in quel momento. Dundee era solo. Dunque, parlava con chi? Stava dialogando. Di questo ne era sicuro. In quel mentre poteva anche decidere di essere l’ultimo rappresentante del suo genere in terra. Chi poteva opporsi?
Allora era forse in quel modo che si poteva decidere per tutti. Come considerando che non ci fosse nessuno. Spalmandosi ovunque. Riempiendo ogni forma e spazio, allo stesso modo della fluidità acquea. “Che idiozia”. Non sembrava qualcosa di valido. Di più, assomigliava al vaneggiare o al limite al fantasticare ma, come se non si avesse nulla di meglio da fare. Pensò a come potersi auto determinare. Era inutile. Continuava a ritornarci. Tutto il resto era annullato dalla gabbia fluida. La musica ed il ritornello erano tali, perlomeno nella testa. “Come Dio. Così deve aver fatto anche Dio”. Decidere per sé era decidere per tutti. Ma come avrebbero preso la cosa, gli altri? “Non lo avrebbero mai saputo. O ricordato”. Poteva reggere il discorso? La magia o l’alchimia. Perché no? In giro non c’era nessuno. Nessuno che ascoltasse. Niente di niente. Forse non esisteva più nessuno. Le case erano illuminate, però. Una sirena in lontananza sembrava rispondere diversamente. Anche se con la tecnologia disponibile, gli ambienti potevano illuminarsi automaticamente poiché programmati ad attivarsi. Ormai tutto era possibile. Anche sopravvivere in un ambiente deserto. La città intera era in grado di continuare ad inscenare una parvenza di vita. Laddove la popolazione era costituita da programmi, relè, sensori, valvole, semafori, luci artificiali, passaggi a livello, macchine, rumori, vetrine, leggi, orari e divieti. Lungo la via c’erano alcune vetrine. Alcune erano spente. Altre no. Alcune ombre effettivamente si muovevano all’interno, conferendo l’idea della contrattazione. Come ombre cinesi? Allora, Dundee poteva decidere per tutti, nel momento in cui non c’era nessuno. Oppure, dal momento che non c’era nessuno. Massa critica. Era possibile; anche se le sue decisioni avrebbero riguardato il funzionamento automatico della città che, quindi, era come immune a tale cambiamento. Un insieme che non ci sentiva. Diversamente da una massa di persone. “Le macchine vanno programmate. Le persone convinte”. Quindi sembrava più arduo programmare che convincere, dato che di quel linguaggio Dundee non sapeva nulla. Ma, del resto, non sapeva nemmeno parlare “bene”. Era forse più semplice decidere per tutti e amen. Tagliare la testa al toro. “È così che fanno i Re”.
Dunque. Era uscito da casa per…? Ed ora si trovava ad immaginare di cambiare il mondo. Anzi, si preparava a diventarne il sovrano. Il che significava che era il mondo a doversi adattare. Anche se la città, da cui partiva tutto, era automatica e poco sensibile ad un simile diktat. La città non ci sentiva. Come la pioggia che più s’infittiva e meno i suoni estranei coprivano le distanze. Era impossibile non notare ed annotare quella sinfonia, così affascinante poiché ricca di esperienza, continuando a replicarsi nel tempo. Il suono delle gocce sul mondo era sempre stato lo stesso. Certo, quando non esistevano ancora le case moderne, i rumori battenti risuonavano diversamente, sul legno, sull’argilla, sul tufo, sulla pietra, su ogni materiale disponibile. Tuttavia, sull’erba e sulla terra era sempre lo stesso suono. Il medesimo roboare stereofonico. Rumore bianco. Musica per le orecchie di chi è più incline al rilassamento o all’ispirazione. Sul catrame l’eco era come di bolle che spumeggiavano nelle pozze. Nei buchi e nelle fessure da cui fuoriusciva anche l’onnipotente erba. Teneri fili dalla forza sovrumana sollevavano alcune porzioni di sordida materia ricoprente il suolo. Quel manto nero era grossolano, impregnante, utile. Parte della modernità. Un sogno per chi ricordava com’era qualsiasi viaggio, in precedenza. Il sogno di chi deteneva l’appalto per la manutenzione. L’invenzione che separava dalla terra e chissà da cos’altro. In epoche trascorse, il parco veicoli era assolutamente… Cosa? Uguale. Nel numero non v’era differenza alcuna. Così come nel caos cittadino. Invece di emanare inquinanti tossici, i cavalli ornavano il cammino di escrementi. Quando non era prevista una rete di contenimento. Eppure l’inquinamento è un’unità di misura moderna. Il legno delle carrozze contribuiva al disboscamento. Quel legname che da sempre le comunità avevano ricavato da giacimenti naturali che si credevano inesauribili, come carbone, petrolio e oro. Ma le miniere prima o poi si esaurivano. E con esse anche tutto ciò che ne dipendeva. All’unisono. “Penso continuamente a come fare. Potrebbe non bastarmi una vita intera”. Era certo o meglio intuiva che non fosse quella la prassi, l’atteggiamento migliore per giungere a determinare il proprio destino. “Degli altri che ne sarà?”. Emerse una sorta di senso di colpa, per qualcosa che non aveva ancora realizzato. Il solo immaginare sprigionava i relativi fantasmi. Come se fosse matematica. Come se il tutto fosse stabilito da vere e proprio regole superiori. E dimenticate, a quanto pareva. Ricordò i vari libri che insegnavano a esercitare il cosiddetto potere della mente. Chi era in grado di dire come fare? E perché. Perché la gran parte della massa non lo sapeva? Davvero l’ambiente funzionava in tal modo? L’antefatto del lavoro, a cui era soggetto quasi chiunque, gli tornò in mente. “Si deve lavorare. Per questo c’è chi insegna anche queste cose”. Ora era nausea quella che sentiva. Così come una stretta allo stomaco. E improvvisamente iniziò a sentirsi meno. Una certa brillantezza era diventata solo un ricordo. Aveva sì lasciato tracce, ma l’ultimo pensiero, l’ultima associazione di idee si era rivelata un disastro per la sua autostima. Realizzò che bastava anche solo un pensiero per distruggere tutto il pregresso. “Che disdetta”. Avrebbe voluto bestemmiare. Qualcosa glielo impedì, di fatto. Dundee sembrava essere coabitato da più parti o inquilini. Oltre al corpo, comune, s’annidavano perlomeno voci in alternanza. Era sempre lui. Eppure sembrava un dibattito, un salotto, un conflitto, una competizione oppure un mercato generale. Certe idee le captava, come se fosse una radio? A volte sembrava. Erano i famosi pensieri non pensati di Bion, molto probabilmente. Al che venne subito in mente i Sei personaggi in cerca di autore, di Pirandello. Vigeva un certo magnetismo capace anche di allontanare però. O, forse, si trattava sempre di attrarre qualcosa. In un senso oppure nell’altro. Solo che il vuoto interiore non era sufficiente per dare una spiegazione a tutto. Nella dualità l’apparenza insegnava a credere nel + o nel -, come se fossero diversità. Ma ad un più attento esame, era sempre di attrazione che sostanzialmente si trattava. Atteggiamento. “Allora ho sempre quello che mi merito”. Il dibattito in testa costituiva un bastione che intratteneva, mentre le decisioni venivano assunte da qualche altro fattore. Cincischiando, si ciurlava nel manico. E da lì la conseguenza era un’altra apparenza: il credersi sempre in attesa. In stand-by. Mentre continuava a succedere tutto il previsto, in quanto a risultato del decidere nell’ambiente che riceveva desiderata, essendo in tal modo organizzato. “Il processo mentale non s’interrompe mai. È la consapevolezza. È questa che manca. Il controllo. Per questo motivo non arrivo mai sino in fondo”. La via era ancora lunga da percorrere. E l’esperimento era fallito. Ancora una volta. Ma non ciò che aveva questa volta recuperato, come dai rottami di un crash aereo.
Lampioni rotondi. Luce che sembrava ad intermittenza. Lucido non “da scarpe”. La strada pullulava. E ristagnava. Poi scorreva. E via così. Era un po’ freddo, come in un frigorifero nel deserto, però. I riflessi facevano la verticale con il manto stradale, andandoci oltre. Proseguendo. Bucandolo in un modo artistico o sovrasensibile. In quante parti del mondo stava piovendo, contemporaneamente? Era quello il potenziale. Non limitarsi mai. Ciò che in quantistica veniva confuso con l’esempio del gatto vivo e morto d’assieme ma come in attesa di giudizio. Alfine, sfociando in un senso oppure nell’altro. No. La contemporaneità era ben altro. È ben altro. Qualcosa o qualcuno che succede allo stesso momento, non inficiando minimamente la posta in gioco. Se fosse un gioco, allora sarebbe il primo premio che non viene diviso tra i vincitori. Ma che raddoppia senza che venga messo dell’altro denaro. Semplicemente adeguandosi. Così come ci sono più vincitori, allo stesso modo per ognuno c’è lo stesso premio. È così che funziona. E non sono universi paralleli. Si tratta di reciprocità? In un certo senso. Ma non è uno scambio in nessun caso. E non c’è nemmeno il trucco. È reciproco ciò, o cosa, o chi, viene contraccambiato. Non è uno scambio. Piuttosto, è una ricompensa. Non è come alla tombola. È come al lotto. Se proprio urge una sorta di spiegazione. La posta non si divide ma è sempre all’altezza dell’esito della partita. Come a dire, allora, che non si bada a spese. Sempre che chi vince sia più di uno, all’unisono. Altri cinquanta metri erano stati percorsi. Quanti ne mancavano alla fine della strada? Dundee si rendeva conto che la logica, questa volta, era in qualche modo più ficcante. Dando quasi piacere e, non, stancando all’ossesso, come di solito. Non si rendeva conto dei dettagli, però. Di ciò che era scattato questa volta. Dove si trovava il nesso causale? Il perché. Aveva bevuto qualcosa, in precedenza? “No”. Aveva fame? “No.” Aveva mangiato prima? “No.” Era sereno? “No”. Era stanco? “Uhm. Può essere”. Se non era sereno era nervoso? “No”. La pioggia lo manteneva in un alveolo statuario. Plastico. Le domande erano incessanti. Le risposte seguivano, come eco. Facendo il check-up, non sembrava aggiungersi nulla. Però, era utile per registrare tutto il processo. Per fissarlo meglio. Per non far sì che tutto scivolasse via, insieme all’acqua piovana. All’indomani ci sarebbe stato il sole. Era previsto. Sì. Ancora programmazione. La città automatica ed il tempo previsto. Venne alla mente il Monopoli e gli imprevisti. Ciò che poteva capitare a chiunque, sopravvivendo. Oppure, sopravvivendo proprio perché a chiunque poteva capitare l’imprevisto. “Bah”. Faceva un po’ a pugni il discorso. L’automatismo non poteva rientrare ancora nel caos. L’intelligenza artificiale aveva risolto tutto questo. Non poteva tornare indietro. A meno che non fosse previsto.
Che anno era? Gli sembrava essere fuori dal tempo. Le condizioni meteo confondevano le convenzioni. E d’assieme anche il concetto di modernità. Non è, in un certo senso, sempre moderno ciò che si fa? È sempre più moderno un figlio, rispetto ai genitori. “Un’altra fregatura, insomma”. Ricordava talune pubblicità. Nonostante il tempo da orologio, erano ancora lì, perfettamente conficcate nella testa. Anch’esse al di là del tempo. Come lui, Dundee, del resto. L’ora, il momento sempre attuale e l’ora, determinata dalle lancette del tempo. Era curioso che il medesimo suono, indicasse due ambiti apparentemente diversi o forse solamente distaccati dall’abitudine di trattare con gli argomenti. Come se tutto fosse nato assieme o fosse sovrapposto a furia di esistere ciclicamente. Il famoso motto della gallina e dell’uovo, era il prossimo step. La mente certamente avrebbe parcheggiato in quel luogo comune. Ed infatti fu così che il vortice del pensiero s’adagiò ancora una volta, per qualche attimo. In quel mentre Dundee percepì come una sorta di pace, di finalmente silenzio. Fu molto breve come un’impressione. Eppure successe. La mente, simile ad un’ape, si posò da qualche parte, attorno a quel ronzio d’idee. Cioè, non era più la mente – forse non lo era mai stata – il fulcro dei pensieri. Bensì, la mente, come estranea a ciò, osservava tale flusso. “Mi ricordo di te”. Ma chi parlava. A chi parlava. Di chi si parlava. Chi era cosa. E chi era chi. E cosa era chi. E cosa era cosa. “Non mi ricordo di te. Non ricordo”. Allo stesso modo di essere perlomeno sdoppiato, era raggelato, perché la regia comunque c’era. Continuava a trasmettere. E fu come sentire un suono proveniente da un apparecchio radio degli anni sessanta che prese a divenire musica moderna. Perfetta, per quanto riguarda la qualità dell’audio. Sempre secondo i canoni del momento attuale o moda. S’innescò qualcosa in termini di qualità. Mentre la quantità era sempre ferma a… due. Tre? Bè, non a uno. Di parti intersecate ce n’era certamente più d’una. Eppure, una ed una sola doveva riferirsi ad esso. A Dundee. A cui sembrava logico credersi la regia. Il suono rintronava. Era ipnotico. Girava la testa. E tutti giù per terra. Cascò. Finì esattamente dentro ad una pozzanghera a forma di ellisse. Il frutto dell’architettura della strada, alla luce di ogni deformità, inclinazione, usura, segno del tempo. Vi appoggiò dentro un ginocchio, sentendosi come un antico cavaliere dedito alla santità. Almeno così si vide. C’era anche del dolore, a pensarci bene. L’ombrello s’era rovesciato e lambiva la parte più scura della scena. Mentre la luce del lampione impoveriva l’ombra. Fra quel confine ambiguo si era annidata la ragione per cui inciampò in qualcosa, di interiore.
“Ma che pensi?”…
Davide Nebuloni
SacroProfanoSacro (SPS_IO) 2021
Bollettino numero 10-488
prospettivavita@gmail.com